San Leo, un Santo moderno
- Rocco Palamara
L’elevazione a SANTO PATRONO di una figura religiosa dice tanto sul carattere e la storia di un popolo col quale avvolte si identifica, ma non sempre: poiché il più delle volte furono i religiosi o i nobili a decidere. Ciò non fu il caso degli africoti che il loro SAN LEO se lo scelsero a propria immagine e somiglianza.
Leone o Leonzio, poi San Leo, fu un monaco basiliano del ’XI secolo che nacque e visse per la massima parte della sua vita ad Africo al tempo dei normanni.
Entrò sin da bambino come novizio nel convento della SS. Annunziata che sorgeva nei pressi del paese, dando sin da subito segni di santità. Perseguendo la regola di San Basilio “ora et labora”, pregava e lavorava insieme ai confratelli, ma dopo aver finito con loro si allontanava di nascosto per andare a pregare ancora in solitudine. Ciò succedeva anche di notte per cui il priore, insospettito, mandò altri novizi per scoprire cosa facesse; ed essi ritornarono riferendo di averlo visto che pregava immerso in un lago freddissimo e con due torce prodigiose che illuminavano la scena.
Da adulto, divenne priore dello stesso convento rendendosi protagonista di azioni concrete in favore dei poveri e dei paesani africoti.
LA DISPUTA CON BOVA
In quanto guaritore taumaturgo e liberatore degli indemoniati, già da vivo lo considerano un santo. Appena morto, gli costruirono una piccola cupola nel posto dove era spirato e, la vicino, una chiesetta dove conservarono il suo corpo.
Allora i bovesi – che ne rivendicavano i natali – andavano là e lo trafugavano portandoselo a Bova dove, a loro volta, gli africoti tornavano di notte a riprenderselo e riportarlo al suo posto. Quand’anche non andassero loro era Lui stesso che tornava con i propri piedi attraversando nottetempo i Campi di Bova. Così almeno la raccontavano i vecchi, credendo nei miracoli del Santo e nella malafede dei bovesi.
Ma a Bova , come nella stessa Africo, comandava il Visconte, e per cui il tutto è riconducibile piuttosto a una prepotenza para-istituzionale ai danni dei montanari isolati nella montagna e lontani dai palazzi del potere. Per gli africoti quel rubarlo a loro volta era l’unica opposizione possibile.
Sarà sempre così per gli africoti: portati nel tempo a riprendersi con l’illegalità ciò che legalmente gli era stato sottratto.
I Visconti infine chiusero le spoglie del Santo dietro una grata robustissima nella cattedrale di Bova, contro cui nulla poterono più i poverissimi africoti.
Lasciarono – bontà loro! – un solo dito come reliquia; mentre si appropriarono del tutto del nome stesso del Santo titolandolo “San Leo di Bova”.
Soccombenti sul punto della forza con le autorità ecclesiastiche, gli africoti e i montanari dell’Aspromonte tutti, la vinsero sul piano spirituale preservando intatta l’anima puramente popolana del Santo attraverso ben 800 anni di politica ecclesiastica: tesa a rifilare al popolo “santi” piagnucolosi e introversi, senza azione concrete di umana solidarietà e quasi sempre provenienti da famiglie nobiliari.
Da dove passò San Leo gli furono innalzate edicole e chiese, ed in alcune comunità ( come quelle di Bova, Delianova e Casalinovo) le persone col suo nome sono in gran lunga le più numerose.
Tramandarono la sua storia integrale con anche le sue azioni più laiche e ominamente audaci, mascherandole da miracoli prodigiosi così da farle digerire alle sospettosissime autorità ecclesiastiche che , d’altra parte, si guardarono bene a proclamarlo “santo”: ma furono perlomeno costretti a tollerare il culto e a proclamarlo “beato”.
Un santo irregolare dunque, come il suo popolo e come nell’ordine delle cose.
Rimasero le differenze: io, che da bambino assistetti tante volte il 5 di maggio a Bova nel giorno della sua festa, restavo impressionato dalla grandiosità con cui questa si svolgeva tra il giubilare di popolo all’uscita dalla cattedrale della sua la sua statua dorata e luccicante al sole su una vara maestosa, preceduta da prelati in pompa magna, tra la musica rimbombante e il fragore degli spari. Stentavo però a riconoscerlo nello stesso Santo commemorato dalle donne del mio paese dove nel loro parlare “ du ‘mbiatu Leu”, non percepivo senso di gloria, ma profondo affetto e commozione.
Persino l’immaginetta votiva passata di mano era assai diversa dalla statua dei bovesi. Rappresentava un uomo anziano col viso barbuto, sofferto e lo sguardo severo: mentre l’altro aveva l’aspetto di un intellettuale anche un po’ paffuto.
L’immaginetta era tratta dalla statua lignea laminata d’argento che gli africoti avevano commissionato ad un artista messinese un paio di secoli prima. Lo mostra dalla base del busto in su, vestito col saio monacale, con in testa un’aureola di tipo medievale e con in una mano un’ascia (vera) e, nell’alta, una sfera che non rappresenta però il globo terraqueo, come quella del SS Salvatore, ma un’umile palla di pece.
LA FABBRICA NEL CONVENTO
Pensandoci adesso, è proprio in quella palla di pece l’emblema della grandezza di Leo che, in un’epoca di grandi carestie, trovò nella resina dei pini il modo di salvare il popolo dalla fame.
Allora, come adesso, i pini abbondavano sull’Aspromonte, ed egli mise a frutto quella risorsa organizzando la raccolta del lattice che si svolgeva appendendo dei vasi ai tronchi appositamente incisi e che poi raffinava in una fornace impiantata nel suo stesso convento. Tramutata la resina in pece, la portava a vendere a Messina, dove serviva per la catarattazione delle navi e per fabbricare profumi.
Completato l’intero ciclo, col ricavato di quel commercio compensava i lavoranti e aiutava i bisognosi. Reddito di fatturato industriale dunque, che servì allora a sfamare la gente e in ricordo del quale la tramandò come uno dei suoi miracoli: quello di aver “tramutato la pece in pane”.
DIPLOMATICO e GUERRIERO
A quel tempo, dopo che i normanni avevano completato la conquista di tutto il Sud Italia e della Sicilia, erano arrivate le tasse, forse prima sconosciute nella remota Africo, e comunque insostenibili per i poverissimi africoti. Allora – tramanda ancora la tradizione – San Leo si incamminò fino a Palermo per interferire con il “Re” (il Gran conte Ruggero), impressionandolo col suo apparire nella corte senza essere annunciato. Ottenne così la diminuzione delle tasse coronando con successo la sua missione.
Ma, a buon bisogno, egli fu anche un guerriero, non esitando a impugnare la spada e guidare gli africoti alla riscossa quando i musulmani (probabilmente nel 1075, in occasione di un assedio a Bova) attaccarono il paese. Era andato un angelo ad avvisarlo; diranno poi i paesani nella necessità di riportarlo nei canoni dei santi normali.
Ed è in queste cose – non da santi introversi e piagnoni – che sta la grandezza di Leo facendo di lui un santo STRAORDINARIAMENTE MODERNO con l’etica dell’impegno sociale, come se ne vedranno solo secoli e secoli dopo con Sant’Alfonso, San Giovanni Bosco e San Filippo Neri.
IL RITORNO
Leo, che era pure figlio del suo tempo, praticava anche la penitenza, ma invece di mortificare il corpo con le pratiche masochiste del tempo, lo fortificava invece con quel modo originale di immergersi nelle acque gelate.
In quanto azioni prodigiose pure di quelle se ne dava merito nelle orazioni a sua memoria, ma, fra tutte le cose rievocate, quella che più commuoveva le donne fino al pianto era quella della sua dipartita per l’altro mondo. Ormai vecchio e stanco, e sentendosi alla fine della vita, lasciò il convento di Rometta presso Messina, dove per ultimo era stato assegnato, e si incamminò per raggiungere il suo vecchio paese per rivedere i luoghi della sua giovinezza e morire tra i suoi.
Arrivato nel territorio di Africo allo stremo delle forze, chiese a uno sconosciuto boscaiolo di portarlo sulle spalle. Accontentato, dopo un po’ gli disse di posarlo e – per ultimo atto di bontà – di raggiungere il convento per dire al priore che “c’era un vecchio morente che si voleva confessare”.
Ancora una volta il buonuomo acconsentì, salvo poi trovare un priore stizzito che alzò il braccio imprecando contro l’importuno. In quell’attimo (tramanda la tradizione) l’arto gli si seccò e, con quella mano alzata che non poteva più muovere, pensò a un sortilegio divino. Ricordandosi allora di San Leo, che sapeva in viaggio, gli chiese perdono per la sua superbia e il braccio gli guarì. Corse allora nel luogo indicato, arrivando in tempo per confessarlo e raccogliere le sue ultime volontà.
Ma l’eredità più importante che San Leo lasciò ai suoi paesani e agli aspromontani tutti fu l’esempio della sua vita che insegnò il valore della solidarietà, del lavoro e del non piegarsi ai potenti.
IL SANTUARIO
Con San Leo a loro immagine e somiglianza gli africoti e i vicini casalinoviti, isolati come in un mondo a parte sulle montagne, completavano la loro autarchia universale: con anche un luogo proprio di pellegrinaggio nella chiesetta e la cupola di San Leo nella contrada Mangioia, a un chilometro da Africo e quattro da Casalinovo.
La si recavano ogni 12 di maggio anche genti da altri paesi con parenti effetti da malattie psichiche e in special modo “indemoniati” per la grazia della guarigione. Per essere liberati dal Demonio li si faceva passare sotto la vara del Santo nel corso della processione e con l’accortezza, al ritorno, di non rifare la stessa strada dell’andata: altrimenti il Diavolo, lì appostato, li avrebbe rimpossessati.