San Luca. Mimmo Morogallo, "Il pittore con la valigia"
- Antonio Strangio
Da ragazzo guardavo i quadri e la pittura in genere con quell’indifferenza, tipica della giovane età, che ha nei giochi e nei sogni colorati e allegri il suo mondo per eccellenza. Pennelli, pittura, disegni e quant’altro potesse significare arte figurativa erano un mondo sconosciuto e lontano, nel quale non m’interessava entrare.
Poi, col maturare degli anni e dei pensieri – le responsabilità subirono l’atmosfera severa del seminario vescovile di Locri dove frequentai la scuola media – mi accostai all’arte della pittura, rimproverandomi per non avere bussato prima alla porta di questo mondo straordinario, augurandomi di poter un giorno non troppo lontano – e prima di dover dare conto dei giorni terreni a un Dio che mi abita e mi guida – incontrare qualcuno di questi straordinari messaggeri di cultura e di vita, i quali, attraverso questa arte sublime e superiore, impreziosiscono i contenuti del nostro mondo.
La fortuna, sotto forma di telefono, mi venne incontro un giorno di qualche anno fa. Nelle vesti di assessore alla Cultura del comune di San Luca, vestito che avevo deciso di indossare nel tentativo di dare un senso e un segno alla straordinaria opera di quel grande scrittore che è stato Corrado Alvaro, mi stavo adoperando insieme ad altri volontari del mio piccolo e tanto chiacchierato paese, nel tentativo di ultimare i preparativi che da lì a qualche giorno avrebbero dovuto ricordare e celebrare il centenario della nascita dello scrittore che meglio ha saputo interpretare e raccontare il Sud e la Calabria in particolare, consegnando alla stampa romanzi e racconti che lo hanno collocato, di diritto, tra gli autori più prolifici e apprezzati del primo Novecento.
Mi trovavo a casa, in quella che viene definita l’ora del riposo, poetizzata da Alvaro come l’ora del lavoro contemplativo e spirituale. Ero immerso in nugolo di pensieri per nulla disturbati dai miei due bambini, Domenico e Giuseppe, rispettivamente di sette e quattro anni, quando lo strillo del telefono mi riportò alla realtà. Dall’altro capo del filo la voce sicura di Gioacchino Saccà, collega pubblicista, il quale annunciava che all’indomani sarebbe arrivato a San Luca il pittore Mimmo Morogallo. Gentilmente mi pregava di mettermi a disposizione di quello che lui considerava un talento vero della Calabria che produce. Rassicurai l’amico pubblicista e tornai ai miei pensieri, ora più pesanti di prima, perché, di punto in bianco, un amico che per la verità non conoscevo aveva inserito dentro di me un nome nuovo che, in quel momento, non mi diceva più di tanto. Pittore Mimmo Morogallo.
Cercai con frenesia e speranza, ma non riuscii a trovare nulla che mi potesse arricchire in merito al personaggio che all’indomani mi avrebbe rubato minimo mezza giornata. Dico “rubato” perché gli impegni comunali erano tanti e tali che bastava poco per far saltare tutto. Il giorno dopo, come stabilito, attesi l’arrivo di Mimmo fuori la porta del palazzo municipale. Non ci volle molto a riconoscerlo. I baffi e gli occhiali grandi e tondi impreziositi da una chioma brizzolata e poco curata – chioma d’artista direbbe qualcuno – mi presentarono un forestiero di tutto punto, il quale ad un mio cenno si fece avanti. Mi strinse la mano e, come preso da un dovere che molto probabilmente era una sua abitudine, mi consegnò alcuni depliant e un libro, il suo biglietto da visita, insomma.
Insieme, e non dopo avergli negato il piacere di un caffè creato da Spadolini (un personaggio straordinario e di sana allegria che ha avuto il coraggio d’inventarsi un esercizio pubblico nel cuore del vecchio paese di Alvaro, abbandonato da tutti), visitammo la casa natale dello scrittore, quella casa alta come un torrione dove l’autore di Gente in Aspromonte visse gli anni più belli e popolati. Mimmo, armato di una macchina fotografica, che secondo me porta sempre con sé, immortalò ogni angolo della vecchia e ristrutturata casa, e su tutto quello che c’era ha voluto conoscere storia e leggenda.
Poi, via nel cuore del vecchio paese, attraversando vicoli abbandonati e quasi distrutti dalla polvere e dall’incuria, dove l’ortica e la nepitella crescono indisturbati, sotto lo sguardo paonazzo di qualche gallina che si è smarrita, e ora scava freneticamente con la zampa destra, come a dare a intendere a qualche altro, in questo caso l’homo sapiens, che cosa avrebbe dovuto fare: rimuovere tutti quei detriti che pesano e rendono più triste i resti delle piccole e caratteristiche case, dove ancora non è difficile trovare un nido di calabroni, o curiosare nei piccoli buchi dei muri cadenti e notare i resti di un’umanità fuggita troppo in fretta, sorda al grido del giovane parroco e rettore del santuario di Polsi don Pino Strangio, che culla il sogno di vedere trasformati quei resti in un paese albergo, sull’onda del messaggio alvariano: «É una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere ma bisogna trarre chi ci è nato, il maggior numero di memorie».
Quello che poi in sostanza mi suggerì Mimmo Morogallo, quando in occasione del Convegno “Alvaro Uomo mediterraneo – Scrittore europeo” (San Luca 19 – 20 aprile 1995), espose il frutto di quel nostro primo incontro: una serie di schizzi a china su alcuni scorci del vecchio paese (tiratura severamente limitata), e una mostra su una serie di tele straordinarie sempre sui vecchi e cari luoghi alvariani: la vecchia chiesuola, la rocca delle rondinelle, la casa natale, la pergola, e altri ancora, simboli di quel paese dell’anima che quanto prima non ci sarà più, e al quale Morogallo ha dedicato tutta la grazia del suo talento, vestendoli con quei colori che lo hanno reso famoso in tutto il mondo. La semplicità della pennellata ha fatto il resto, umanizzando luoghi abbandonati da Dio e dagli uomini.
Sostanzialmente, quello che poi è il credo dell’artista Mimmo Morogallo, a ragione definito “il pittore con la valigia”, ma io aggiungo: pittore giramondo e testimonial di una Calabria ricca di valori autentici. Mimmo è uno di questi: un artista solitario che ha per casa il mondo e nella pennellata solare e autentica il sogno e la speranza, l’illusione e la certezza, la forza e il coraggio, insomma quei valori che contraddistinguono il calabrese vero, quello che per essere capito deve essere parlato, e tante speranze ha regalato ai conterranei sparsi nel mondo, servendosi di un pennello, una tela e un cuore grande e autentico.