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Sant'Agata del Bianco. Il rifugio dell'astronomo

  •   Domenico Stranieri
Giuseppe Galletta con le moglie negli anni Sessanta Giuseppe Galletta con le moglie negli anni Sessanta

C’è un posto, tra Sant’Agata del Bianco e Samo, da dove, pare, si vedano meglio le stelle. Si chiama Mendulà, un nome legato alla considerevole presenza di alberi di mandorlo. In questo luogo, nell’800, si aggirava solitario un uomo che, per alcuni aspetti, mi piace accostare al filosofo Eraclito (nato intorno al 500 a.C.), il quale depositò il suo unico manoscritto nel tempio di Artemide, a Efeso (la sua città). Eraclito (al quale si deve, tra le tante cose, l’idea che “tutto scorre”, panta rei) pensava di aver scritto delle verità estranee alla massa. Si dice, infatti, che mal sopportava la compagnia degli uomini e si estraniasse dal volgo con un atteggiamento che era una via di mezzo tra l’aristocratico e il mistico. 

Il fuoco (che egli considerava il principio di tutte le cose) distrusse la sua unica opera. Tuttavia, ci rimane ancora qualche frammento del tipo: “Tutti gli efesi farebbero bene ad impiccarsi e a lasciare la città ai giovani imberbi…”. Ma facciamo un salto in avanti di qualche millennio e ritorniamo al nostro uomo solitario dell’800. La sua figura è tratteggiata nelle pagine inedite del diario di Giuseppe Galletta, un maestro di Sant’Agata del Bianco che ha insegnato in Lombardia, a Busto Arsizio, dagli anni ‘50 fino al 1976. Di Galletta (scomparso nel 2013) si potrebbe parlare in un articolo a parte, e non è detto che non lo farò. Era il prototipo del calabrese che emigra al Nord e, per capacità e ingegno, diventa un punto di riferimento per la scuola e per l’intera città. Il suo metodo scolastico, che forse aveva qualcosa dell’attivismo pedagogico di Dewey, ha appassionato generazioni di studenti. Riusciva, difatti, a trasmettere valori e conoscenze con un uso pratico delle materie (basti pensare all’allevamento in classe dei bachi da seta, che, nei secoli scorsi, rappresentava una ricchezza per i paesi aspromontani). 

É stata Giulia, la figlia maggiore, a parlarmi del diario del padre e a rivelarmi che tra le sue pagine avrei trovato memorie che riguardavano le nostre comunità. Quando ho avuto tra le mani i fogli dattiloscritti del maestro Galletta ho subito ravvisato che, perfino nella sua chiara struttura narrativa, egli era un precursore. Avete presente il libro Il Mondo di Sofia (Longanesi, 2002), divenuto un bestseller mondiale, dove il professore norvegese Jostein Gaarder racconta la storia della filosofia parlando alla figlia? Ebbene, Giuseppe Galletta, decenni prima di Gaarder, scriveva rivolgendosi alle figlie Giulia e Carla, di continuo, come se stesse dialogando con loro (ed in un certo senso lo faceva). Tra le vicende che riemergono da questo diario c’è, dunque, anche quella di un individuo soprannominato l’Astronomo (in dialetto Strolamo).

 

Si tratta di Saverio Macrì, di Sant’Agata, che, come Eraclito, era un possidente facoltoso, introverso e privo di amore verso gli uomini. Per questo si era rifugiato a Mendulà, nel suo terreno di cinque ettari ricco di mandorle, ad osservare le stelle (che erano la sua unica passione). Viveva nella più perfetta delle solitudini, come un filosofo vecchio e stanco, in una piccola casetta tra gli alberi che conserva ancora un’idea monastica di bellezza. In paese lo consideravano un tipo “ombroso” anche perché, ovviamente, aveva deciso di non frequentare nessuno, soprattutto i parenti. Dal diario si evince, addirittura, che “nominò unico suo erede il re Vittorio Emanuele II”.

 

Tutti i familiari rimasero disorientati, arrendevoli dinanzi all’idea di perdere per sempre Mendulà. Tutti tranne uno: mastro Domenico Galletta, nonno del maestro Giuseppe. Pertanto, quando l’Astronomo morì, mastro Domenico non si diede per vinto e “indirizzò al Re una motivata petizione che la burocrazia passò al tribunale di Palmi”. Successivamente, per difendersi, scelse proprio un legale di Palmi, l’avvocato Demetrio Tripepi, e si incamminò a piedi per raggiungere il suo studio. 

 

Durante il viaggio incontrò prima dei malviventi che cercarono di derubarlo (ma egli teneva le sue poche lire “nella toppa cucita all’interno della camicia”) e poi, in una radura “in mezzo a una carbonaia fumante”, della brava gente che gli offrì da mangiare. Arrivato a destinazione, l’avvocato Tripepi intese le ragioni del suo cliente e, dopo qualche tempo, gli consegnò la sentenza attraverso la quale il Tribunale civile riconosceva la madre di mastro Domenico quale legittima erede di Saverio Macrì. Il fondo di Mendulà ritornava alla famiglia. Adesso bisognava depositare la sentenza in Pretura, a Bianco. 

 

Ma le cose si complicarono per una serie di accidenti (e qui la vicenda diventa “manzoniana”) e la furbizia di un tale, don Rosario (mai fidarsi di certi “don”), che tramava per impossessarsi del terreno. Appena mastro Domenico capì di essere stato ingannato meditò di “ammazzare” don Rosario che, con uno stratagemma, aveva fatto sparire la sentenza. Ma, grazie al buon senso della moglie e alla ritrovata armonia tra i parenti, mastro Domenico non perse la testa. Anzi, riuscì a tenere in pugno l’unità della faccenda e sistemò ogni cosa.

 

Dopodiché, redatto un documento di quietanza, con l’aiuto di Mico Marvici, un avveduto esperto di campagna, si procedette alla spartizione dell’eredità. La tenuta riprese a fiorire, come se un pennello fosse passato a ripulirne i colori. Da lontano si distinguevano i perastri e i fichi d’india (che arrossavano come una fiamma tutta la costa). 

 

Solo “il canneto non si toccava: tra le sue radici era stato sepolto lo Strolamo”. 

 

Scrive Giuseppe Galletta: “Fu così, carissime mie figliuole, che si evitarono disastrose conseguenze per la famiglia del nonno, che, tuttora, ricorda il tradimento di quell’anima malvagia di don Rosario. Il nonno Mico sarebbe finito in galera per il torto subito. Prevalse, per fortuna, la ragione. Vedete ragazze, non bisogna mai agire di prima furia. É bene sempre far trascorrere congruo tempo prima di prendere decisioni d’una certa importanza. La legge della faida non dà mai buoni frutti”.

 

 

Si dice che, anni dopo, ogni tanto passasse da Mendulà pure il brigante Musolino. Raccoglieva qualche ortaggio, di notte, e lasciava delle monete per far intendere che non voleva rubare. Chissà se anche Musolino, come l’Astronomo, aveva notato che, guardando il cielo, da Mendulà le stelle si vedono meglio!

 


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