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Sant'Elia. Ferdinando e l'inseparabile sceccu

  •   Redazione
Sant'Elia. Ferdinando e l'inseparabile sceccu

Il borgo Sant’Elia era un labirinto di camminamenti intricati e pendenti che solo la frequente violenza della burrasca rendeva puliti e transitabili. Tutto era stretto, fatto appena a misura d’uomo e di quadrupede.

A fronte della finestra dei miei studi e delle mie visioni, oltre il vicolo, sorgeva e sorge tuttora la casa di Ferdinando, nido modesto e dignitoso, composto dallo stesso Ferdinando, moglie e figlia più un quarto non incomodo asinello, inseparabile compagno di vita del laborioso padrone. Animo semplici, corporatura minuta, occhio e capello nero corvino, volto squadrato ed imbrunito dal sole, Ferdinando era, come suol dirsi, una brava onesta persona. Quel che sembrava era e quel che era sembrava.

La sua giornata scorreva a ritmi consueti e prevedibili: casa - campagna, campagna - casa. E sempre davanti al fedele ronzino, col quale aveva stabilito un istintuale rapporto di mutua solidale comprensione a tal punto che l’uno non poteva fare a meno dell’altro. 

Quante volte, alle prime luci dell’alba o sull’imbrunire, ascoltavo la voce di Ferdinando rivolgersi alla sua creatura con parole di sapore umano: «A suja ncè, u frenu puru, ora mangia e dormi ca domani, dopu du Crucivia ndavimu a jiri a Moiu». Oppure, mentre sistemava il basto e legava i cofani sui fianchi, «Rissigghiati co suli nesciu e a strata è longa». 

Così parlava Ferdinando alla sua bestia mattino e sera, toccando corde d’insolita tenerezza. Ma un giorno, maledetto giorno, l’idillio fu turbato da una bravata cattiva e crudele architettata da un masnadiero contro l’innocente bestia e, di conseguenza, contro l’ineffabile Ferdinando. Il quale, dopo essersi spinto lungo un sentiero, ora concavo ora gibboso denominato timpa, in località Pumaritu, se ne tornava lentamente verso casa, col carico di paccottiglia racimolata nel campo, tenendo fermo per la corda lo stanco ronzino.

Il tempo uggioso ed umido non lasciava presagire nulla di allegro, come si poteva evincere anche dal passo leggermente claudicante del redivivo Sancio Panza. 

Mimì (mi lacrima il cuore da quando un inguaribile male ce lo tolse, ancora giovane!) Mario e Franco erano i tre fratelli inseparabili amici e complici di mille avventure. Di schiatta intelligente e geniale, avevano sfumature diverse di comportamento e di azione. 

Mimì, occhi chiari e vivi dietro occhiali scuri, sembrava appena uscito da un college inglese, da cui aveva attinto l’humor ed il tipico distacco.

Mario, animo più sensibile, aveva ed ha una visione poetica della vita che contempla con ironico sorriso. A volte picaresco, smargiasso mai. Franco, irrequieto, impaziente e ribelle da piccolo, non somigliava lontanamente a quello di oggi: strano sempre con tratti degni di un anacoreta. 

Presentata la triade, torniamo al dì funesto dell’innocente e divertente bravata. Franco conosce il percorso di Ferdinando; si concentra ed escogita il piano. Da un vecchio ombrello ricava gli attrezzi per costruire una rudimentale balestra e l’apposita freccia. Raggiunge l’impervio sentiero e, arciere provetto, si acquatta in un anfratto coperto da sterpaglia, proprio sotto il tratto di strada che stava percorrendo il nostro protagonista. Sposta un ramo e adocchia la duplice macchia nera che avanza; sente lo scalpitio più vicino; alza la testa e, non visto, scorge gli zoccoli anteriori dell’asino. È un attimo: innesta la freccia nella cordicella, tende al massimo e vibra un colpo secco. La freccia va a conficcarsi veloce nella pancia della povera bestia che inizia a ragliare per l’improvviso dolore. 

Ferdinando, dopo un primo smarrimento, saltellando come un forsennato attorno alla bestia trafitta, si dispera, si abbassa (non eccessivamente) ed estrae con uno strappo vigoroso la freccia crudele. Nel girarsi sul fianco destro, la freccia sanguinante in mano, riesce fortunosamente ad individuare l’infallibile arciere che se la dà a gambe levate lungo il canale del piccolo canyon. L’asino continua a ragliare inondando di rabbiosa bava il volto incredulo e inviperito del padrone che, occhi bassi e lucidi di pianto come se quella freccia avesse trafitto anche le sue carni, guadagna l’ultimo tratto di strada. 

Giunto a casa, non dice parola. Digrigna i denti e medita vendetta per la calamità subita. Se il risarcimento morale e fisico non dovesse arrivare in giornata, lo scavezzacollo avrebbe dovuto fare i conti con lui, ora non più mite. Questo pensiero dominava l’animo esacerbato di Ferdinando. Ai familiari che lo invitavano alla calma e alla ragione rispondeva solamente: «Guardàti comu suffri lu me sceccu, ju scapestratu mu volia mmazzari». 

Medicata la pancia e arrestato alla bella e meglio l’efflusso di sangue, porta delicatamente la bestia nella stalla, riempie la greppia di fieno e saluta con una intensa carezza sul collo ancora sudato la povera vittima. Cambia repentinamente camicia, giacca e pantaloni. In men che non si dica bussa alla porta di casa Foti. Si alza i pantaloni, con una rapida spolverata al berretto e si trova davanti la figura disarmante e rasserenante di donna Pascuzza, madre dell’individuato arciere. 

La mascella inferiore sbilanciata a sinistra, la lingua impastata di saliva roteante tra i denti, l’occhio destro socchiuso ed umido, sbiancato in volto riesce a sbiascicare: «Cummari Pascuzza, nui ndi rispettammo sempri, ma vostru figghju Francu pe pocu non mi mmazzau u sceccu, povera bestia chi ancora suffri. A fici grossa! Ora regolativi vui». 

Donna Pascuzza, non nuova a rimostranze del genere, conoscendo l’esuberante vivacità dei figli, col garbo che la distingueva, rassicurò l’inquieto Ferdinando, promettendo che tutto si sarebbe aggiustato e che la sua famiglia avrebbe fatto fronte ad ogni danno con responsabilità e comprensione. Ferdinando si tranquillizzò, girò le spalle e salutò togliendosi il berretto ed abbozzando un mezzo spagnolesco inchino. 

In casa arrivò, subito dopo, Mimì che, reso edotto dell’accaduto nei particolari e nella dinamica, orchestrò una delle sue estrose e geniali esibizioni, tratta quasi da quelle immortalate dal Principe De Curtis, in arte Totò. Giacca blu, cravatta scura su camicia bianca, occhiali da dottorino sul naso e borsetta nera sotto il braccio, si recò presso l’abitazione di Ferdinando, spacciandosi, con mal celata supponenza, per il veterinario Marino, mandato dalla signora Battista Pasqualina in Foti, con l’incaricodi visitare e curare la bestia ferita. Avrebbe anche rilevato e quantificato gli eventuali danni subiti dal detto Ferdinando. Stupore e meraviglia prima, grazia e gratitudine dopo trasparivano dal volto ora sorridente del mal capitato. Il dottore visitò meticolosamente la bestia sulla cui ferita spalmò un miracoloso unguento, rassicurando l’ospite che l’indomani avrebbe potuto recarsi in campagna col ciuco sano e più forte. 

Salutò con un cenno del capo e accolse con sussiego gli attestati di stima che Ferdinando esprimeva verso quella famiglia così sensibile, generosa e tempestiva. Mimì s’allontanò, dritto come un fuso, senza tradire l’ombra di un’emozione. A casa smise i panni dell’inappuntabile veterinario e, fiero del risultato, tornò a pensare alla vittima della prossima bischerata. La sceneggiata aveva sortito il successo sperato.

di Pasqualino Marcianò, tratto dal libro Schegge di vissuto


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