Stato e 'ndrangheta. Donne, ostaggio in Aspromonte
- Cosimo Sframeli
Gente libera, ricca d’intelligenza e di passione. Con un agire diverso da quello faccendiero/spettacolare o aziendale. Con un agire fine, attento ai gemiti dell’anima che ama il piccolo e l’invisibile. Un agire che ritrova lo stile e l’energia di un amore forte e paziente, capace di ricucire ogni cosa. In tanti si allontanano dalla pratica della Legalità perché non trovano o incontrano Giustizia. Ad una tiepida rassegnazione, subentra tanto moralismo, un’intensa critica aspra contro la società ed un’eccessiva sfiducia nelle Istituzioni. Smascherata la sistematicità con la quale il potere esercita violenza, nel testimoniare con responsabilità la non rassegnazione, abbracciamo con fede e con forza la croce dei Vinti perché Vincitori non lo saremo mai.
Il sequestro Casella
Donne pallide dentro quei vestiti neri, segno di lutto, di usanze, di povertà. Erano in tante le donne a San Luca, madri e spose, costrette a portare il peso della casa quando i loro uomini erano in montagna o in carcere. Guardavano con curiosità Angela Casella che da Pavia si era spinta sino in Aspromonte per riprendersi il figlio, da quasi due anni prigioniero dell’Anonima sequestri.
San Luca, che non era patria solo di sequestri di persona, accoglieva la mamma di Cesare Casella in questo suo viaggio d’amore offrendole un’altra disperazione, quella di una popolazione abbandonata, flagellata dalla violenza della ‘ndrangheta e della natura, duramente provata dell’assenza dello Stato. Riserbo e discrezione secolare si scioglievano. Tra la folla una ragazzina di terza media, Antonella, scrisse e distribuì una sorta di lettera-preghiera ai rapitori di Cesare: “Mi associo al dolore e all’angoscia di questa madre… il mio modesto appello vuole essere la voce di quella parte sana della società civile che poi è la maggioranza… Liberatelo!”.
Il cerchio della solidarietà attorno ad Angela Casella, il cui coraggio fu di eccezionale rarità, diventava sempre più grande.
Un consenso tangibile che commosse una madre sofferente il cui dolore divenne collettivo per interi paesi dell’Aspromonte. Si riunì nella piazza di San Luca il Consiglio comunale per discutere della drammatica vicenda. Mai nessuno si era preoccupato della comunità sanluchese quando non c’era lavoro o quando più di seicento famiglie furono costrette a lasciare le loro case. Nelle trattative per la liberazione, i carcerieri di Cesare Casella recapitarono ad Antonio Delfino la prova che il ragazzo era vivo, la cosiddetta “prova dell’esistenza in vita del sequestrato”. Il Preside era ben conosciuto, sapevano di lui che, suo tramite e attraverso i giornali, l’opinione pubblica sarebbe stata informata.
Quando Casella venne liberato, San Luca respirò come quando un nubifragio si rovescia sui campi rinsecchiti della montagna dopo anni di arsura.
Il tentato sequestro Dellea Un mese dopo, quattro giovani di San Luca e di Careri vennero uccisi dai carabinieri mentre a Luino (Varese) cercavano di sequestrare Antonella Dellea, una ragazza di 27 anni figlia di un facoltoso imprenditore. Al sindaco comunista Angelo Strangio, al parroco don Pino Strangio, giunsero centinaia di lettere contenenti aspre critiche e feroci offese, non meritate, che vennero pubblicate in un libro da due giornalisti, Filippo Veltri e Diego Minuti. Giacomo Mancini, deputato del Psi dal 1948, a una professoressa calabrese, che gli sollecitò in modo pacato dei chiarimenti, rispose di suo pugno: «Gentile Signora, mi dispiace di non essere d’accordo con lei. A me, mio nonno, Giacomo Mancini senior, diceva che i genitori non devono essere né forti né deboli. Ma giusti. Se lo Stato sarà giusto, anche i trasgressori della legge diminuiranno».
Paquino Crupi
Il professore Pasquino Crupi, giornalista e scrittore, direttore del quindicinale politico-culturale Calabria Oggi, scrisse in merito titolandolo: “La lunga notte della Calabria”. Pasquino, mosso da coscienza etica, ebbe la forza di non mascherare la pietà e di non tacere la verità nello scrivere il libro: Il giallo colore del sangue di Luino.
Il carbone diventato brace si riprese al primo soffio e di nuovo San Luca precipitava all’inferno. Si diceva che Alvaro non tornasse volentieri al suo paese, dove nacque nel 1895 e che, dopo i funerali del padre, celebrati a gennaio del 1941, non ebbe più l’opportunità di ritornarvi.
Così lo amava descrivere: «In un mucchio di case presso il fiume, sulla balza aspra circondata di colli dolcissimi digradanti verso il mare». L’Aspromonte, così come San Luca, rappresentò il luogo senza tempo dove Alvaro riusciva a collocare, in memoria, l’umanità e la civiltà che andava scomparendo.
Massaru Peppe
Fu Antonio Delfino a ricordare che nel 1930 arrivarono a San Luca le prime copie di Gente in Aspromonte e furono in tanti a sentirsi diffamati, persino la ‘ndrangheta sparse veleno contro lo scrittore. Delfino rassicurò che fatti ed episodi li aveva ereditati da suo padre, maresciallo “a piedi” dei Carabinieri reali, comandante della stazione di San Luca, inteso “Massaru Peppe”, raffigurato in un racconto di Alvaro, Il canto di Cosima, come uomo coraggioso, cacciatore di malavitosi che, per controllare la montagna ribelle, non ebbe bisogno dell’esercito, ma di pochi volenterosi carabinieri.
Alvaro, icona letteraria
Vennero poi le storie avventurose di sequestri, che si aggrovigliavano con le vicende di ‘ndrangheta e di servizi segreti, di colletti bianchi e di massoneria, di confidenti e di pentiti, di zone grigie e di zone nere, fino al caso Moro per poi tornare in Aspromonte, ad Alvaro, cercando nello scrittore, che mitizzò l’Aspromonte e la sua gente, un salvacondotto, come se la letteratura, che già tanto svolge in questo angolo afflitto di Calabria, possa piegare il codice penale.
A San Luca si batterono come leoni perché il nome del paese non fosse associato sempre e solo all’Anonima sequestri, alla ‘ndrangheta. Ed è Alvaro l’icona letteraria dietro la quale, come nelle processioni dei santi patroni, si schiera un’agguerrita popolazione di sanluchesi nella speranza che possa magicamente diventare un anticorpo civile contro la mafia perché la memoria letteraria sovrasti quella criminale. Ci vuole il cuore.
Affermava papa Giovanni Paolo II: «Le istituzioni sono molto importanti e indispensabili; tuttavia, nessuna istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana, l’iniziativa umana, quando si tratti di farsi incontro alla sofferenza dell’altro. Questo si riferisce alle sofferenze fisiche, ma vale ancora di più se si tratta delle molteplici sofferenze morali, e quando, prima di tutto, a soffrire è l’anima».