Tiberio Bentivoglio. Quell’acre odore di bruciato
- Giusy Staropoli Calafati
Tiberio aveva deciso di restare. Restare per vincere. Riscattare la terra di suo padre. Troppi erano già andati via. Deceduti dal nome della terra, perché non avevano il coraggio neppure di tornare. I codardi, così li chiamava, Tiberio. Ché la codardia restava il primo pregio e difetto del Sud, ovunque questo scegliesse di abitare.
E andando via, Tiberio, avrebbe contribuito ad aumentare, in faccia al mondo, quello stesso pregio e l’ugual difetto, cosicché, la terra, lasciata sola, si sarebbe incarognita ancora. E non voleva. Macchiarsi di tale peccato, alla sua coscienza, sarebbe costato molto, troppo.
Restando invece, alle carogne, avrebbe potuto dare filo da torcere. E ne diede. Ne diede ai codardi e ai minchioni. Agli ominicchi, ai ruffiani, e ai coglioni d’onore.
Reggio era stata da sempre la sua città sul balcone. Un’araba fenice, nata e rinata dai terremoti e dalla storia. Tra le sue strade, s’era fatta grande la sua gioventù felice, mentre l’inorgogliva il perpetuare, dalla montagna al mare, dei profumi delle ginestre e le zagare fluttuanti. Degli odori sinergici dello scirocco e del grecale, del pane cotto al forno e del greco essenziale.
Reggio doveva essere la culla ed il sepolcro. Lo aveva promesso a suo padre in letto di morte. Gli aveva insegnato che un uomo deve morire laddove nasce. Così come accadeva a lui. E Tiberio, restava per morirci, come suo padre, anche se questo, significava, patire i martìri certi, che il Sud ti regalava. Ché chiunque restava e resta ancora, in Calabria, s’ammalatisce di ripartenze croniche. Come fosse un ciclo mestruale. V’era e v’è ancora, una classe sociale pronta a fare inorridire i superstiti, fanaticamente collusa, ammanicata e intransigente, che esige pizzo e non si ferma. Perlustra, scruta, cattura e non libera. Trattiene in aeternum. Ma Tiberio la conosceva la sua terra. O meglio ancora credeva di conoscerla. Non sapeva infatti, delle volte che la terra invece, lo avrebbe potuto tragicamente disconoscere.
Quando conobbe Enza, la sua restanza, la benedì dieci, cento e mille volte. In quella Reggio amata, scopriva la grandezza dell’amore, scovato lungo quel chilometro inenarrabile di Mediterraneo spumeggiante.
- Nella buona e nella cattiva sorte – si promisero. E così avvenne. Un amore gentile, che portava a marchio la freschezza di una terra che dopo essere madre, sapeva divenire anche amante.
Tiberio gestiva un magazzino al centro della città. Il commercio lo aveva attratto da sempre. Gli piaceva. E la gente lo amava. Serviva le madri e i figlioletti. Fu da lui che la mia, comprò il primo biberon. La carrozzina e le fasce.
Era un brav’uomo, Tiberio. Amava il suo mestiere allo stesso modo di come amava la sua città. Con il cuore.
Di domenica lo si vedeva lungo il mare, a rimirare lo stretto e poi Messina, in una sola battuta d’occhi. L’andirivieni del mare, lo esaltava. E a scorgerti, in quel suo essere finemente assorto, ti salutava con un cenno del viso e poi tornava al mare a godersi l’attesa di Morgana, che non arrivava mai allo stesso modo e nel medesimo tempo.
Il carattere che lo definiva, scolpiva l’uomo che era. Ed era tosto, Tiberio. Come suo padre. – I minchioni – diceva, – in questa terra non vinceranno mai. Non devono vincere – riferendosi ai malandrini, i malavitosi, gli uomini di ndrangheta che agivano da una vita, barbaramente, di notte, per non scoprirsi il viso. Mentre Tiberio invece, ci metteva la faccia. E l’aveva messa più volte, quando con vili atti avevano cercato di intimidire la sua testardaggine. L’onestà che lo animava. Quando gli avevano promesso libertà sincera in cambio di pizzo clandestino. Tutte queste volte, Tiberio ci aveva messo la faccia, l’onore e la dignità di uomo. Ma la ndrangheta non ha orecchi per sentire, ma mani. Mani per riscuotere, distruggere e se necessario uccidere. Eppure, l’orgoglio ereditato dal padre, aveva fatto di Tiberio un uomo onesto. Troppo per cedere alle lusinghe di una terra che da madre e amante, diviene inesorabilmente matrigna. Di una mentalità ristretta, che condannava Reggio a restare piccola e sola, facendo gravare sulla parte più buona di essa, pregiudiziali pesanti come mazzare. Ma la capa tosta, si paga. E Tiberio incominciò a pagare sulla sua pelle, e a viso scoperto, il coraggio della lotta alla ndrangheta. Perché chi è tundu non po’ moriri quadratu, e Tiberio s’era giurato di morire tundu per come era nato. E con Enza, amanti anche nella cattiva sorte, così come si erano giurati, divennero testimoni di ndrangheta. Reggio, la sua città, non poteva continuare a subire ancora. Bisognava vendicare l’onore dei giusti. Ribellarsi a così tanto male. Ai soprusi, agli inganni. E Tiberio, denunciò gli abusi. Le minacce e le più amare intimidazioni.
Ma coi testimoni, la ndrangheta è certo che s’incazza. E poi, più certo ancora, si vendica. E si vendicava con Tiberio, in una maledetta notte di Febbraio.
Un teorema che la Calabria, a seguito delle sue nobili origini magnogreche, non aveva mai voluto imparare a memoria, ma viveva e subiva.
Fu il fuoco a squarciare la notturna quiete della città. La ferocia di un fuoco, che quando Tiberio se ne accorse fu troppo tardi. Tardissimo.
Il magazzino dei biberon, delle carrozzine e le fasce dei lattanti, fu dato alle fiamme senza alcuna pietà. Per mano della ndrangheta a viso coperto, tutto andava perduto. Anche la speranza. Quella tradizionale a cui auspica la santità dello Stato. Perché Tiberio, tra i resti bruciati e l’amaro del fumo, diveniva parte di quegli uomini strani, che mentre lo Stato fa finta di spiccicare le sue lane chissà dove, al Sud nel Sud per il Sud, combattono col petto aperto e il viso scoperto, più guerre di un soldato. Ma che non divengono mai uomini-eroi, né eletti o protetti, ma restano, tra le fauci ghiotte del sistema mafia a mezzogiorno, appena “miseri” testimoni di ndrangheta per la “giustizia”, senza neppure avere una speranza di riserva, per quell’ ipotetico nuovo domani, da ricercare magari nella più disparata dignità del Meridione. Dignità che, amaramente, Tiberio perdeva in quell’acre odore di bruciato, in una delle tanti notti reggine e faticosamente meridionali.