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  •   Bruno Criaco
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Erano ancora le quattro di pomeriggio, ma le nuvole nere che da giorni buttavano giù pioggia anticiparono la sera. Camminavano in silenzio. Camminavano da ore, e da ore la pioggia aveva oltrepassato le loro giacche a vento. Erano stanchi ma non si potevano fermare, il freddo li avrebbe stremati. Più si avvicinavano alla fiumara e più forte si percepiva il rumore dell’acqua.

In uno degli ultimi tornanti finalmente la videro e non ebbero il coraggio di incrociare gli sguardi. Era scura. Per la luce che abbandonava il giorno e per la pioggia che scioglieva la montagna. Bestemmiavano quando le piante d’erica piegate dall’acqua sbattevano sui loro visi, ma non era quello il vero motivo delle loro imprecazioni.

Continuarono a non parlarsi anche quando iniziarono l’inevitabile traversata, ma le loro mani si saldarono in una stretta che ricordò ad entrambi il loro affetto. Infinito. Morboso. I sassi rotolavano sulle loro caviglie. Impietosi. La corrente faceva pressione sui loro corpi che inspiegabilmente la sopportarono.

Solo quando riemersero sull’altra sponda dell’Aposcipo videro un’ombra che faceva dei segni disperati. Era un’ombra amica, che sempre imprecando, gli venne incontro e li strinse a sé. Erano insieme ed il resto erano solo “dettagli” pensarono i tre senza dirselo.

Arrivarono all’ovile che era già buio e il vecchio massaro li accolse con un affettuoso rimprovero: «Se non fosse la vigilia di Natale vi lascerei fuori a tremare dal freddo, pazzi e incoscienti, non si può sfidare la fiumara in quelle condizioni».

Si asciugarono vicino al fuoco di legna di leccio, le bracie, che poi avrebbero arrostito il castrato che il massaro aveva macellato per l’occasione, asciugarono le loro ossa. Il vino, almeno per quella notte, la loro tristezza.

Uno di loro era con lo sguardo perso dentro al rosso del fuoco e sbucciava un’arancia incidendone con il coltello la buccia. La buttò nel fuoco e la vide carbonizzarsi in un attimo, ne percepì l’aroma: pensò che l’inferno se c’era, era fatto così. Per questo i vecchi lo chiamavano fuoco latraru: rubava le anime. E lui ci sarebbe finito dritto dritto in quel rosso accecante e la sua anima sarebbe evaporata come lo spirito di quell’ agrume. Si sbagliava.

Questo pensava Iano mentre attraversava il corridoio del piano terra della prigione di Fresnes, nella regione di Parigi. Erano passati tanti anni dalla “traversata”. Era comunque un ventiquattro dicembre. Le guardie lo stavano portando in cella di isolamento. Doveva passarci quarantacinque giorni. Un’infinità. Una “traversata” più insidiosa di quella dell’Aposcipo.

Stavolta era solo e non c’era nessuna ombra amica ad attenderlo dall’altro lato del pericolo. Quello era l’inferno. Adesso rimpiangeva il rombo del fiume dei suoi antenati, quell’acqua nera e gelida che aveva provato inutilmente ad intimorirlo. Leggeva in silenzio, che lì non si poteva neanche parlare, i nomi e i pensieri che gli ultimi detenuti condannati alla ghigliottina avevano scritto sui muri di quella cella. Gli sembrava di percepirne ancora la presenza. Tutto il dolore passato da lì era rimasto sospeso nell’aria. Per sempre.

Col pensiero tornò bambino. Era Natale. Vide la madre che metteva nel forno i “protali”, il padre che scuoiava il capretto legato a testa in giù nel grosso leccio vicino alla “mandra”. Vide i fratellini intorno al braciere. Vide i visi scolpiti dalla sofferenza dei nonni montanari, e li sfiorò con una carezza ideale. Il letto era di cemento ma lo senti sprofondare.

Nel corridoio il carrello con la cena ruppe il silenzio. La feritoia sotto la porta blindata si aprì e la guardia spinse dentro col piede una ciotola. «La tua cena italiano, e se vuoi ci sono pure le gocce per dormire» «Niente “paradiso”» pensò Iano e, prendendo il cibo, gli sembrò di essere un cane. «Buon Natale italiano» disse con disprezzo la guardia.

Iano non si mosse dal letto. Lo sguardo era perso nel neon sopra la porta, acceso giorno e notte. Pensò che Gesù era nato per salvare gli uomini, ma che forse gli uomini non lo meritavano. Pensò che Cristo aveva raccomandato di aiutare i carcerati ed i suoi occhi accennarono un sorriso. Sentì il freddo dell’acqua nera dell’Aposcipo. E sentì una forza incontenibile che trascinava il suo corpo.

Infine sentì pure l’odore dell’arancia che saliva dalle bracie di leccio nello stazzo di massaro Ciccio. E poi non sentì più niente.


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