Vincenzo. Il bimbo e la strada
- Gioacchino Criaco
“Luca andò a sedersi sopra un basso muretto, costruito ai margini della carreggiata. Faceva caldo, si tolse il giubbotto e rimase in camicia. Era una giornata luminosa. Il sole abbagliava e l’aria sembrava immobile. Un’atmosfera impensabile per una giornata di dicembre. Sarebbe potuto essere in un posto qualsiasi lungo le sponde del Mediterraneo. Davanti a lui si alzavano le piante di un agrumeto. Limoni, aranci, bergamotti coloravano quel pomeriggio quieto e profumato. Abbassò lo sguardo e incrociò due grandi occhi neri. Lo guardavano dalla foto attaccata a un piccolo monumento funebre. Appartenevano a un volto di bimbo che faceva capolino dietro un mazzo di margherite gialle. Lesse il nome. Provò a fantasticare su chi fosse stato. Allungò la vista e individuò almeno un altro paio di lapidi. Guardò con più attenzione lo stato della strada. Era stretta, mancava la linea di mezzeria, non c’erano indicazioni, il manto d’asfalto era difforme e ricoperto di buche. Poco più di una mulattiera. Intuì la causa di quella morte. Girò gli occhi intorno. Fece un fugace saluto con la mano al bambino che continuava a fissarlo. Agguantò la borsa e ritornò verso il paese”.
Questa storia, Luca, me l’ha raccontata in una delle sere, delle feste appena trascorse. Era scosso e io per farne paio gli ho detto di una sera dell’agosto passato.
“Avevo presentato un libro, in uno dei paesini delle Serre vibonesi. S’era fatto notte ed ero ripartito in macchina, da solo, per rientrare a casa. Una calda e stellata sera d’estate, carica del profumo dei pini e delle felci. Al bivio scelsi a caso, la Limina, invece di Grotteria. Nel giro di pochi minuti, e di alcuni chilometri, il cielo si chiuse, l’estate scappò via, giunse l’inverno, col suo gelo e una nebbia fittissima, e neanche un’auto che mi venisse incontro o mi stesse alle spalle. Il vetro non ne volle sapere di spannarsi, e accostai per pulirlo. Ebbi una voglia improvvisa di scendere, spensi il motore e lasciai i fari ad abbattersi su un muro di nebbia. Accesi una sigaretta e insieme al fumo ingoiai il sapore della montagna, del silenzio, di una solitudine sconfinata. Fu allora che li vidi, i fari gli stavano addosso. Due occhi scuri che mi fissavano, dentro un volto di bambino sorridente stampato su una lapide sul ciglio della strada.Lessi il nome, le date. E un’onda calda mi si riversò dentro. Niente paura, né fantasmi, nulla di surreale o ultraterreno accadde. Solo una grande, immensa tenerezza per quel ragazzo solo, fra quei monti muti. Una compassione, senza pietà, per chi, nonostante i tanti anni trascorsi, aveva continuato a portargli fiori, margherite che ora erano fresche, vive, segno di un incontro recente. Ero andato via con calma, spossato. L’estate e le stelle erano tornate in fretta e la nebbia era svanita in un inverno ancora impossibile da immaginare”.
Quel volto però mi è rimasto in testa, e quel nome. Lo ricordo sempre, perché penso così di alleviare il dolore di chi ha perso e la solitudine di chi si è perduto. Luca è come me, siamo nati in montagna, l’impressione non ci appartiene, ma sappiamo della solitudine, del ricordo. Per questo ci siamo scambiati i nomi, per alleggerirci, e alleggerire, il peso. Io gli ho dato un Francesco e lui mi ha passato un Nicola.