Vite dannate. Le confessioni di un killer
- Cosimo Sframeli
La prima volta, anche per un criminale, è dura. Col tempo diventerà un killer senz’anima, ma il battesimo di sangue, quello non se lo scorderà più.
Rocco, cresciuto nel perimetro violento di una Calabria in balia della criminalità organizzata, ricorda come un incubo la prima volta in cui la famiglia di Sebastiano, il suo mito, gli chiese di uccidere un uomo: «Si chiamava Andrea; la sua unica colpa era di essere vicino all’Onorevole, uno dei politici più in vista della Calabria». Un uomo indifeso che non sospettava minimamente quel che gli sarebbe accaduto: sembrava facile, fu terribile. «Iniziai a sparare, ma ero teso. Con i primi due colpi lo ferii ad un fianco e ad un braccio». Lui, con un piede già nella fossa, provò a salvarsi: «Lasciami vivere: ho moglie, bambini, non faccio del male». Passarono pochi secondi. «Tre, quattro, cinque, cento, impossibile dirlo. Lui che continuava ad implorarmi, a guardarmi. Lo finii con tre colpi alla testa. E poi rimasi a fissarlo stupefatto». Qualche minuto dopo, Rocco, vomitò l’anima: «Ah, la coscienza. Che problema, eh Rocco?», gli sussurrò Leo, un altro picciotto. Sì, la coscienza poteva essere un problema, ma solo all’inizio: «Guarda che anche i migliori la prima volta vomitano», gli spiegò l’amico, più esperto.
È proprio così, racconta il killer, arrestato nei primi anni ‘90. Col tempo uccidere diventò una professione, la sua, proprio una specialità: Rocco, tra la Lombardia e la Calabria, ha ammazzato 100 persone, una più una meno, e alla lunga ha smarrito la contabilità esatta di questo cimitero, arrivando a confondere nomi e numeri. Una storia che affiora in tutta la sua crudezza. Ci riporta a ritroso nel tempo, a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. E ci descrive la vita paranoica di un killer: in Calabria in quel periodo si moriva per un nonnulla e spesso la “famiglia” affidava l’incarico a lui.
«Come sempre, prima di un omicidio o di una rapina, mi sentivo un rigorista ad una finale dei mondiali. Affrontare una giornata da killer è un’eccitazione che pochi sperimentano. In tutta onestà, io amavo quella sensazione. Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole, e non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite».
Rocco uccide piccoli criminali, che hanno compiuto qualche sgarro, e certi personaggi famosi. Un giorno gli affidano il compito di far cadere in trappola Giacomo, un “tragediatore”. Per tre settimane Rocco si guadagna la fiducia della futura vittima: gli prospetta la possibilità di “trafficare” insieme. Giacomo abbassa la guardia e, dopo una cena, finisce nella rete: «Mi sentivo una spia… Ti fai amico un tizio e dopo un po’ lo uccidi. Era lavoro». Lavoro che passava attraverso la tortura: «Prendemmo sotto le ascelle Giacomo e lo portammo in un’altra stanza, dove c’erano le armi, lo legammo alla sedia, cominciammo a interrogarlo per farci dire dove fosse finita una grossa partita di droga, pagata e mai giunta a destinazione»…
«Tradire gli amici… che cosa ti sei messo in testa?… Estrassi dal revolver tutti i proiettili tranne uno, girai il tamburo e iniziai a premere il grilletto con la canna puntata alla sua testa. C’era un silenzio glaciale. Mentre ero piazzato davanti a lui e continuavo con la mia bella “roulette russa”, la prima a cedere fu la sua vescica. Prima gli colorò i pantaloni, poi il pavimento». Giacomo implora Rocco: «Darei qualsiasi cosa per farmi perdonare. Non uccidermi, ti prego…». Il killer che la prima volta aveva esitato e vomitato l’anima, si commuove. Ma alla maniera dei criminali: «Strano a dirsi, mi impietosì, e lasciai agli altri il compito di strangolarlo. Quando lo ammazzarono mi trovavo nella stanza accanto. Il cadavere venne avvolto in una coperta e bruciato in campagna. L’auto di Giacomo venne poi guidata fino a Cosenza e consegnata ad un rottamaio per essere “tagliata”».
Questa era la Calabria degli ultimi anni ’80 e dei primi anni ‘90. Con una media, di tre omicidi al giorno. E una ferocia che non ammette confronti: «Turi e Sergio furono uccisi perché non si fidavano più di loro. Dopo essere stati strangolati furono gettati dentro un porcile. Per stimolare i maiali, i cadaveri furono tagliati all’altezza del ventre, e sul sangue i suini si avventarono, sotto lo sguardo compiaciuto dei presenti».
Era così che si moriva in Calabria, dalle nostre parti.