Antichi mestieri. ’A putiha: generi alimentari, gioco delle carte e vino “battezzato”
- Bruno Palamara
Resiste ancora in qualche paese di montagna quel piccolo, indimenticabile, esercizio commerciale che ha accompagnato le famiglie italiane in tutto il processo di ricostruzione del nostro Paese, uscito distrutto fisicamente e moralmente dall’esperienza bellica. Erano, è vero, altri tempi!
I tempi d’’a putiha
Erano i tempi d’’a putiha, una parola che ci riporta ad un fase importante della nostra memoria collettiva, evocando profumi ed atmosfere di un mondo ormai completamente scomparso. Oggi le famiglie del duemila hanno a disposizione negozi specializzati, market, centri commerciali assaliti giornalmente da una marea di gente che in essi si riversa anche per un senso di svago e di divertimento. Un tempo, e non parliamo di un secolo fa, ma degli anni Cinquanta-Sessanta, le famiglie si accontentavano – si fa per dire – d’’a putiha, la bottega per antonomasia, la vecchia e mai dimenticata “generi alimentari”, una porta, anzi la porta verso il mondo. Si vendeva tutto rigorosamente sfuso, non confezionato, a peso: c’era il recipiente con le sarde salate, il contenitore della conserva di pomodoro, a sarza per il ragù (si chiedevano “due cucchiai di conserva”), un grande vaso con le aringhe. Era incredibile come in quei pochi metri quadri si riusciva ad accontentare una clientela che vi trovava di tutto: il sale, il riso, la pasta (‘na pisata, cinque chili), le caramelle in bella mostra in un vaso trasparente, la liquirizia, le castagne secche, la cannella, la noce moscata, lo spago, i quaderni, le matite, il sapone, il filo da cucire e quant’altro necessario alla vita di allora.
‘U putiharu
La bottega era più o meno la stessa in tutti i paesi: aveva un grande bancone con sopra la bilancia a due piatti, dietro il quale “regnava”, un po’ borioso, il grande esercente locale, ‘u putiharu. I conti li faceva a matita (la teneva sempre sull’orecchio destro, a portata di mano) sulla “carta gialla” e molto spesso, anzi quasi sempre, signava, annotava cioè, quello che il cliente acquistava su un “quadernetto” che le massaie chiamavano simpaticamente ‘a libretta. Era la “carta di credito” dei nostri giorni, una forma di pagamento, un “credito alimentare” in un’epoca in cui era diffuso capillarmente l’uso di vindìri ‘a cridènza.
La “carta di credito”
Su questa libretta con la copertina nera ‘u putiharu annotava l’importo della spesa a credito e i generi acquistati, dati che, diligentemente, riproduceva in copia su un suo librone. Il conto veniva saldato a fine mese o, comunque, quando era possibile, grazie al rapporto di fiducia che s’instaurava tra ‘u putiharu e il cliente, che (il posto fisso era di là da venire) si dimenava tra disoccupazione totale e qualche giornata lavorativa, che non gli garantivano di essere puntuale. E quando il credito diventava eccessivo non era certo raro che ‘u putiharu sbottasse e, talvolta, minacciasse di rifiutare ulteriore credito. Succedeva però raramente, perché scattava, quasi istintivamente, un senso di solidarietà tra loro, per cui il saldo veniva sempre posdatato. Sarebbe importante fare uno studio di queste “librette” (di quelle rimaste, perché tante sono state distrutte per disperazione, impagate): uscirebbe un’autentica statistica dei bisogni primari della società di quel tempo, di cui a libretta rappresentava la cartina di tornasole. Ci vollero gli “anni Settanta”, quando le rimesse degli emigranti dalla Francia, dalla Germania, dalla lontana Australia e dall’America e un certo risveglio economico migliorarono le modeste condizioni delle famiglie, perché le “librette” sparissero del tutto.
Il gioco delle carte
Allora, ogni “generi alimentari” che si rispettasse aveva un locale che adibiva al gioco delle carte, dove si degustava e si consumava quella bevanda tanto cara al dio Bacco: il vino. A quel tempo a ‘a putiha du vinu rappresentava l’unico svago nel paese: si giocava a carte fino a notte tardi, bruciando il tempo tra i fumi dell’alcool e l’odore acre di “trinciato” forte del tabacco. A questa regola non poteva venire meno mastru Vicenzu, che, per noi, ha incarnato il vero putiharu con quella sua bonaria simpatia che riusciva a “catturare” con facilità i clienti, facendo diventare il suo locale luogo di incontro e di ristoro, il posto dove la gente passava più tempo che con la famiglia. Era, ‘a putiha, tradizionalmente, un luogo di socializzazione prettamente maschile, in cui era assolutamente esclusa la presenza di donne, tranne l’eventuale moglie del putiharu, anche perché volavano spesso frasi “colorite” e bestemmie di ogni tipo e fantasia. Accanite partite a briscola si succedevano tra quelle quattro mura tra battute, scherzi e racconti di vita vissuta.
Patruni e ‘ssutta
Si giocava prevalentemente con le carte napoletane, ma, spesso, anche al tocco. Chi perdeva, pagava da bere ai vincitori: in palio “tre quarti e una gassosa!”. Ogni partita si concludeva con il gioco detto patruni e ‘ssutta in cui qualcuno, o più persone, potevano (a volte “dovevano”) rimanere all’urmu (all’olmo), a bocca asciutta, cioè non bere affatto per tutta la serata. L’espressione deriva dall’espressione francese «Attendez moi sous l’orme» («Aspettatemi sotto l’olmo», cioè inutilmente). Alcuni preferivano bere qualche bicchiere di troppo, perfino ubriacarsi, pur di vedere l’altro all’urmu per tutta la serata. Mastru Vicenzu che, spesso, quando mancava il numero dei giocatori si accompagnava al gioco, ne era il direttore d’orchestra, vantandosi sempre di essere quello che in paese vendeva il vino migliore. In parte era vero: «È una polvere!» era solito dire, ma spesso e volentieri ricorreva al “ritocco”, non appena “carpiva” che il vino stava cominciando a procurare i suoi effetti.
“Battezzare” il vino
In altre parole, lo “battezzava”, così come faceva donna Betta, la putihara conosciuta e descritta in una delle sue prime opere, La marchesina, dal grande scrittore calabrese Saverio Strati. Solitamente era lui, mastru Vicenzu, il protagonista di questo rito. Quando, però, era impegnato anche lui al gioco, con quella sua voce tonante lo imponeva alla moglie, gridando: «Agnese, sistemalo e portalo». Era il concordato segnale, il momento propizio per annacquare un po’ il vino, tanto gli avventori, un po’ “avvinacciati”, difficilmente avrebbero capito la differenza. Anzi, se rimproverato per questo, si arroccava pure il merito di rendere in quel modo meno pesante l’eventuale ubriacatura dei giocatori.
Olio di oliva e vino
Durante il gioco mastru Vicenzu usava, come ogni putiharu che si rispettasse, tutti gli accorgimenti possibili atti a stimolare la sete e, quindi, il desiderio di consumare più vino, portando spesso durante il gioco qualcosa da mangiare, quasi sempre olive, lupini, un po’ di salame, qualche biscotto inumidito nel succo di pomodoro crudo, insaporito con molto peperoncino. I più accaniti bevitori, però, ricorrevano da sè ad alcuni trucchetti per reggere meglio il vino: prima che il gioco cominciasse inghiottivano dell’olio d’oliva, oppure tenevano in tasca dei limoni da succhiare. Quanti aneddoti sul carattere e la personalità di questo personaggio del passato che ancora oggi molti ricordano con simpatia. Spesso chiedeva a qualcuno la soluzione di un debito, non dovuto, convincendolo con la sua parlantina persuasiva della sua veridicità o pretendeva il pagamento di bibite non consumate al gioco, mettendo nel conto bottiglie vuote che lui stesso aveva, celatamente, aggiunto.
La resa di mastru Vicenzu
Con gli anni Settanta anche mastru Vicenzu ha dovuto arrendersi di fronte alla galoppante modernità che per sua natura tende a modificare tradizioni e modi di vivere, ma non può cancellare il ricordo di un tempo in cui bastava poco per essere felici, gustando appieno anche le piccole cose della vita. Oggi non è così, tesi come siamo allo spreco e al superfluo, ingabbiati in un consumismo esasperato privo di valori educativi soprattutto per le nuove generazioni.