Antichi mestieri. Il “mastro” per eccellenza
- Bruno Palamara
Il fabbro è uno dei mestieri più considerati e apprezzati dalla gente comune sia per la sua incommensurabile utilità sia per le grandi capacità e i grossi sforzi fisici che ha sempre richiesto, per cui nessuno più di un fabbro, a nostro parere, merita l’appellativo di “mastro”. I nostri avi lo chiamavano forgiaru, proprio per dare l’idea dell’artista che “forgia”, modella, plasma, manipola un materiale difficile quale è il ferro, riuscendo, nel contempo, a creare vere e proprie opere d’arte. Lo stesso termine “fabbro” deriva dal latino “faber” che significa abile, quindi, uomo capace di prendere un pezzo di ferro e di trasformarlo nella figura o nella forma che più desidera. É, per la verità, un mestiere faticoso, le cui origini risalgono all’alba della storia. Qualcuno lo colloca nel Neolitico, quando, ben 8mila anni fa, l’uomo iniziò prima a fondere il rame, poi, intorno al 1100 a.C., a trattare il ferro, per cui possiamo affermare che, molto probabilmente, il primo fabbro della storia ebbe origini asiatiche.
In realtà, le prime prove di utilizzo del ferro ci provengono dai Sumeri e dagli Egizi che già quattro millenni prima di Cristo lo usavano per costruire punte di lancia e armi primitive di vario tipo, ma anche per realizzare collane e gioielli, tutti oggetti creati col ferro recuperato dalle meteoriti. La capacità di domare un metallo così duro e scorbutico, col passare del tempo, conferì al fabbro (così come accadde anche per il medico e per l’astrologo) quell’aurea magica che lo portò a divenire una figura di grande rilievo nella società e nell’organizzazione civile del tempo. La stessa mitologia greca gli diede grande importanza, annoverando tra gli dei Efesto – per i romani Vulcano – dio del fuoco, considerato “il fabbro” per antonomasia e venerato come il più sapiente “forgiatore” di lame e di gioielli: nelle sue fucine venivano fabbricate le invincibili armi per gli dei e per gli eroi del tempo. Famoso fu lo scudo di Achille, minuziosamente descritto dal grande poeta greco Omero. La lavorazione del ferro battuto ha accompagnato l’uomo nel corso delle varie epoche storiche con applicazioni e usi diversificati nel tempo, a cominciare dai Celti e dagli Etruschi che già alcuni secoli prima di Cristo diedero grande impulso alla sua tecnologia. Roma ha sfruttato la maestria dei suoi fabbri non solo nel campo bellico, con la produzione di armi e di attrezzature militari necessarie per le inarrestabili campagne alla conquista del mondo, ma anche, e sempre di più, nel campo strettamente civile con la realizzazione di tutti quegli oggetti che una società evoluta e cosmopolita, come quella romana imperiale, richiedeva, soprattutto utensili per la casa e per l’agricoltura e, anche, per l’abbellimento della capitale. A Roma, addirittura, il ferro era considerato metallo più prezioso e più ricercato dell’argento e fu proprio nella “città eterna” che nacque la prima corporazione di maestri fabbri. É, però, la Firenze del Duecento che deve essere considerata la vera e propria culla nel campo della lavorazione del ferro, grande promotrice dello sviluppo dell’arte fabbrile: ci ha lasciato in eredità non solo prodotti comuni, ma anche gloriosi capolavori che oggi possiamo ammirare nelle chiese, sui monumenti, nei musei e in molte case signorili. A noi piace ricordare, tra gli altri, il magnifico cancello della cappella Rinuccini, che si trova presso la basilica di Santa Croce nella stessa città che ha dato i natali al sommo poeta, Dante Alghieri.
Nel corso dei secoli il fabbro ha saputo ampliare e variare la sua attività, divenendo uno dei principali perni dell’economia locale. Soprattutto nei nostri paesi, caratterizzati da una vocazione quasi esclusivamente agricola, il fabbro ha rappresentato un mestiere di vitale importanza, strettamente correlato al mondo contadino, al quale ha procurato non solo gli indispensabili attrezzi da lavoro, ma anche i manufatti che arredavano le antiche dimore di campagna, come le sponde per letti, gli attrezzi per il camino, le inferriate, le maniglie, le serrature, oltre le suppellettili ornamentali e gli utensili per la cucina. Nel 1954 l’emissione della moneta da 50 lire con la riproduzione, sul lato frontale, dell’effigie del fabbro (il dio Vulcano) nell’atto di battere il martello sull’incudine, lo ha elevato, di fatto, a simbolo dell’Italia che lavora e che produce. Il fabbro, dalle nostre parti, l’abbiamo sempre chiamato ‘u forgiaru, viveva e lavorava, tutto il giorno, chiuso in quel suo laboratorio, in cui scintillava in continuazione la fucina, cuore della bottega, il focolare a carbone, continuamente vivo e incandescente, alimentato senza sosta da un ventilatore a mano o da un mantice a forma di soffietto, al fine di portare il fuoco alla temperatura idonea a rendere il ferro morbido e malleabile.
Mastro Sebastiano, il nome era tutto un programma, aveva costruito la forgia su un terreno adiacente alla sua modesta casa. Al centro aveva posto un poderoso ceppo di legno di quercia, detto toppo, sopra cui aveva posto l’incudine, ‘a ncùjna, lo strumento “principe” dell’officina: era, in realtà, un grosso blocco di acciaio che serviva, oltre che per appiattire il ferro, per incurvarlo e dargli la giusta sagoma. Con i suoi sapienti colpi di mazza e di martello il nostro “mastro Bastiano”, come col tempo veniva dai paesani affettuosamente chiamato, tirava fuori tutto ciò che contadini, manovali e braccianti, ma anche persone benestanti richiedevano per il loro lavoro o per solo ornamento: aratri, falci, roncole, zappe, accette (le cugnate), brocche e graticole, cancelli, coltelli da cucina, porte e testiere per letti. Alcuni di questi lavori risultavano vere e proprie opere d’arte, con riproduzione di disegni artistici ricchi di particolari, come fiori e ricami raffinati. Vicino all’incudine mastro Bastiano, che indossava sempre un grembiule di pelle di cuoio, teneva tenaglie, martelli di varie misure, un recipiente in pietra con l’acqua, necessaria, spesso, per raffreddare il ferro incandescente. Più in là aveva sistemato la morsa, fissata al banco, il trapano a mano, la mola per arrotare a mano, il tornio per il ferro; alle pareti erano appese squadre, compassi e altri attrezzi; appoggiati ai muri pezzi di ferro di ogni specie; sparsi qua e là arnesi da riparare o attrezzi in attesa di essere visionati. Era, mastro Bastiano, uomo mite e tranquillo, molto attaccato al lavoro. Forza e vigore fisico non gli mancavano, del forgiaro aveva proprio, come dicono i francesi, “le phisique du rôle”. Certo, mastro Bastiano, non era di facile loquela, anche se, quando parlava, dimostrava saggezza e perspicacia. Immerso fino al sabato nel nero della fuliggine e della polvere, la domenica si trasformava, dedicandosi interamente alla famiglia, lontano da incudine e martello. Rassettato, con la faccia pulita, schiarita e profumata, domenica mattina mastro Bastiano andava regolarmente in chiesa con tutta la famiglia, forse anche per farsi perdonare qualche piccola bestemmia – mai, però, contro santo Egidio, protettore dei fabbri – involontariamente uscita dalle sue labbra in settimana.
Nelle rigide giornate d’inverno la forgia di mastro Bastiano diventava luogo di ritrovo per passanti infreddoliti e per semplici curiosi, per cui il “mastro” mai rimaneva solo. Anzi, la sua officina era diventata, col tempo, un vero e proprio spazio sociale, in cui gli avventori, che, spesso e volentieri, arrivavano con un bel fiasco di vino rosso, disquisivano sugli argomenti più vari al ritmo dei suoi tonanti colpi di martello. Quando l’argomento lo interessava particolarmente, era lo stesso mastro Bastiano che interrompeva quel ritmo incessante e “concedeva” il suo autorevole parere con l’usuale: «Secondo me…». Ma mastro Bastiano eccelleva, soprattutto, quando smetteva i panni del forgiaro e vestiva quelli del maniscalco, vero esperto nel ferrare asini, cavalli e muli. A vederlo all’opera accorreva sempre uno stuolo di paesani, giovani e anziani, incuriositi da quello che col tempo era diventato uno spettacolo.
Ferrare un animale non era per niente facile, servivano sensibilità e riflessi pronti, ma anche tanta bravura e ponderatezza, altrimenti si rischiava di mettere a repentaglio l’incolumità fisica della povera bestia, rappresentando il piede il suo organo più delicato. Prima di iniziare qualsiasi operazione, mastro Bastiano si preoccupava, innanzitutto, di rendere il cavallo tranquillo con qualche carezza e con quel suo modo di parlare, un vero dialogo con la bestia. Con un’apposita tenaglia toglieva, “in primis”, i ferrivecchi e, quindi, eseguiva il “pareggio”, fase fondamentale della ferratura, eliminando con una specie di coltello, chiamato rùina, le parti in eccesso dell’unghia e rifinendole con uno scalpello. Puliva poi il fettone, la parte inferiore interna dello zoccolo, molto delicata. L’applicazione del nuovo ferro poteva avvenire sia a caldo che a freddo. Mastro Bastiano preferiva l’attaccatura a caldo, perché gli permetteva di eseguire all’istante gli eventuali ritocchi. Il ferro, sempre a forma di una grande U, veniva applicato con la dovuta precauzione e precisione, per evitare che i chiodi, oltrepassando lo strato d’unghia, andassero a ledere la parte viva dello zoccolo, azzoppando il povero cavallo. Alla fine, con una lima, chiamata raspa, mastro Bastiano effettuava le ultime rifiniture, anche di carattere estetico, non mancando di osservare l’animale sia da fermo che in movimento. Il tutto si completava con la classica domanda: «Mastro, per il disturbo quant’è?». Il corrispettivo, spesso, era rappresentato da legumi e ortaggi, fagioli, ceci e farina. A sera mastro Bastiano ritornava a casa un po’ malfermo sulle gambe, sia per quel “poco” di alcol bevuto in compagnia durante la giornata sia per l’enorme stanchezza fisica, dovuta anche al fatto di lavorare stando sempre in piedi. Andava a letto alla pari con le galline, la sua giornata era terribilmente lunga e faticosa e meritava, davvero, un sonno ristoratore, per essere pronto l’indomani a passare un altro giorno sempre uguale a ieri.
Il mestiere del fabbro, come è accaduto per tanti altri, si è nel tempo evoluto, moderni macchinari hanno alleviato la sua fatica, dando impulso ad una forte specializzazione nei diversi rami del settore, così che oggi prevale più la lavorazione dell’alluminio che quella del ferro, più il taglio e la saldatura che la forgiatura. Saldatrici, smerigli, magli e seghe elettriche e la naturale modernizzazione dell’attività hanno sconvolto totalmente il lavoro del vecchio “forgiaro”, facendolo, di fatto, scomparire. Ma la poesia, espressa per secoli, diremmo millenni, da questo amabile e amato mestiere antico, l’odore della forgia e del carbone, il fascino e la simpatia che spandevano i tanti mastro Bastiano della nostra terra, ditemi, chi se li può scordare?!