Benestare. Carnalivari nelle farse di paese
- Franco Blefari
Quella che si rappresentava a Benestare, nell’immediato dopoguerra, era una farsa che, espressa nel dialetto più stretto della classe contadina, era profondamente radicata nella cultura popolare.
Fino alla fine degli anni ‘80, primi anni ‘90, infatti, la farsa era molto diffusa in alcuni paesi della Locride, specie in quelli interni, dove, attraverso le varie parlate dialettali, veniva raccontata in piazza, al centro delle cosiddette roti (ruote) la storia di Carnalavari.
Era una generazione, quella che aspettava un anno per sganasciarsi dalle risate, che voleva dimenticare, con la rappresentazione delle farse carnascialesche, gli orrori e le privazioni della guerra, e trovava nelle allegre malefatte di Carnevale, che rappresentava il sogno di tanta gente delle classi più umili, il modo di allontanare per un giorno lo spettro della fame e abbandonarsi a pantagrueliche abbuffate di carne di maiale, senza nulla dovere pagare. E nell’immaginario collettivo tutto ciò poteva succedere soltanto ad un uomo del popolo come Carnalavari, a cui venivano perdonati tutti i peccati di gola, che andavano dal furto continuo di animali da strada, come galline o conigli non dovutamente custoditi, ai maiali, che rubava nottetempo, e a generi alimentari che comprava nelle botteghe a credito, cioè ‘a cridenza, e che non venivano mai più pagati.
E non solo beni di prima necessità, Carnalavari comprava a credito anche scarpe, carne, e tutto ciò che gli serviva per tirare avanti. E per questo che veniva inseguito per le strade da tutti i suoi creditori, con minacce di morte, che finivano tutte in un tribunale bonariamente allestito in piazza, dove Carnalavari veniva sempre assolto.
Quella generazione, che usciva dalla guerra e amava le farse carnascialesche, superava con la finzione i disagi della miseria, ma già con l’arrivo del berlingaccio si dava un gran da fare per procurarsi la carne di maiale, perché ‘i ll’ordaloru, cu no’àvi carni mpigna ‘u figghjolu, proprio come recitava un detto popolare che suggeriva, a chi non poteva comprare la carne per il giovedì grasso, di impegnare il figlio, offrendolo (al macellaio) per farlo lavorare in cambio della carne di maiale.
«Largu, silenziu e non fati palori» ammoniva l’ingresso in scena (‘nte roti) di Pulcinella, la famosa maschera presa in prestito dalla commedia napoletana, il cui compito era quello di fare spazio tra la gente che affollava le piazze e introdurre la farsa:
«Ca ‘na bella farza nui ndavìmu a fari
ch’esti fatta di chjàcchjari e paroli,
c’apposta vinni stu Carnalavari»
La farsa era quella della “Rosetta”, molto diffusa in quegli anni Quaranta/Cinquanta, che molti attori ricordavano quasi tutta a memoria fino a tarda età, ed era stata scritta da Clelia Pellicano, originaria di Gioiosa jonica, ma residente a Roma, che l’aveva pubblicata in dialetto romanesco nel 1908 sul giornale Novelle calabresi.
In questa farsa c’erano tanti personaggi diventati molto popolari col passare degli anni, come il Su Giacintu, Capural Gianni e Capural Ntoninu, la cui identità (e spesso anche le battute), però, cambiava ogni qual volta la rappresentazione carnascialesca cambiava paese, poiché ogni attore voleva aggiungere sempre qualcosa di suo per agganciarlo ad una realtà locale che, esposta al pubblico ludibrio, avrebbe fatto ridere la gente ancora di più.
Rosetta, che dava il nome alla farsa, era la donna di Carnevale, che lo seguiva nelle piazze come un’ombra, sempre vicino al suo eroe, per difenderlo dalle ingiustizie della corte, che minacciava di condannarlo a lunghe pene detentive, ruolo che in altre farse veniva svolto dalla zzè Vecchja, la madre di Carnalavari.
«Je’ sû Rosetta di nomu e di fattu,
non mbogghju accunti
cui li cori affritti»
Concludeva Rosetta, la pasionaria carnascialesca a conclusione della farsa, nel corso del ballo finale, invitando tutti al ballo e all’allegria, per festeggiare l’assoluzione di Carnalavari.
Ma anche il sidernese Carmelo Filocamo, con la sua farsa I debiti ‘i Carnalavari, lo assolveva per non avere commesso il fatto, nonostante i suoi creditori lo avessero trascinato in tribunale per essere condannato una volta per tutte, dopo aver mangiato (e fatto) di cotte e di crude.
«A nomu di lu rrè Scangiadinari,
nostru sovranu e nostru mperaturi,
si menti in libertà Carnalavari,
c’accussì vonnu li sô cridituri»
La storia carnascialesca ha sempre assolto Carnalavari, anche se qualche autore di quegli anni ha pensato di fargli pagare tutti i porci divorati e i creditori non pagati facendolo precipitare da una rupe, quasi a riconsegnarlo purgato da ogni peccato (di gola) a quel popolo che lo ha sempre amato e osannato. Quello di Filocamo, è doveroso rilevare, è stato il Carnalavari più celebre ed amato dalle folle paesane degli ultimi cinquant’anni, in quanto la pubblicazione, del 1985, per i tipi di Rubbettino editore, è stata ben curata dal figlio Carmelo, preside e illuminato uomo di cultura, e diffusa negli ambienti culturali più frequentati, stimolandone la conoscenza e la rappresentazione nelle varie realtà locali.
Guascone, pittoresco, mangia a sbafo, sempre inseguito dai suoi creditori, questo Carnalavari è una maschera rubiconda totalmente calato nella cardara (è proprio il caso di dirlo!) della tradizione popolare. Ma c’è sempre una corte pronta a condannarlo, una madre a difenderlo ed un pubblico ad assolverlo, tutti elementi che fanno della farsa un momento di grande spettacolarità ed emozione collettiva.
A Benestare, tutti gli anni, queste due farse venivano rigorosamente celebrate in piazza Ariaporu. Ma anche altre farse minori, di cui si conservano solo brandelli di tracce orali, venivano rappresentate dagli abitanti di quel paese di gesso (dal calcare con cui erano costruite tutte le sue case), a testimonianza di una comunità particolarmente legata a questo teatro da strada che, molte volte, sconfinava con la Commedia dell’arte, dove gli attori, che dimenticavano le battute, incominciavano a recitare a soggetto per rendere ancora più piccanti le allusioni che si facevano a eventi o personaggi della vita quotidiana.
In questo paese, nonostante l’età non più verde, vive ancora il più grande interprete di farse carnascialesche della seconda metà del secolo scorso, Peppi ‘u Nigru, il quale, quasi tutti gli anni, sfidando il tempo e le mode, e indossando un pantalone di taglia tre-volte-extra-large, che fu di qualche suo bisnonno, e con un orinale stracolmo di polpette appeso al collo, beve vino a getto continuo e morde nodi di salsicce e tranci di lardo affumicato ad ogni battuta.
Le farse, scritte da qualche autore paesano, si svolgono in una piazza chiamata Ariaporu, posta al centro di un agglomerato di case, che una volta era il cuore pulsante del paese di genesi tipicamente rurale.
E le interpreti, tutte comari di ruga e vicine di pianerottolo (‘i mignanu), se le dicono di santa ragione (si caglipìjanu) con frasi ingiuriose e, spesso, irripetibili, per la gioia di una comunità che ritrova nella farsa le sue radici squisitamente contadine e il sorriso dei suoi antenati, che aspettavano la farsa di Carnevale per sapere sulla pubblica piazza ciò che nemmeno in privato si poteva dire.
Ma di (tutto) questo si parlerà in un’altra occasione, perché le farse che tutt’oggi si celebrano a Benestare meritano un capitolo a parte, non solo per la bravura degli interpreti e la grandezza dei personaggi pittoreschi di un tempo, che vengono riproposti, ma perché alcuni di essi, forse senza nemmeno saperlo, interpretano se stessi, ed è meglio che ancora non lo sappiano. E poi perché chi le scrive, forse, non ama le commemorazioni anticipate.