Benestare. Cercando il Natale perduto, tra tradizione e poesia popolare
- Franco Blefari
Mi capita ancora, verso i primi di dicembre, di aspettare con ansia che arrivi il giorno 16, quando incomincia la novena di Natale, per respirare a pieni polmoni quell’aria che non è più la stessa di quando ero bambino.
Alla mia età ho il filo diretto col passato, e il ricordo mi collega subito a quella novena che si faceva una volta, poco prima dell’alba, in chiesa e per le strade del paese.
Il Natale dei miei tempi - parlo di più di cinquant’anni fa - mi torna in mente con tutto il suo carico di nostalgia, di quando i giovani (e gli anziani) di allora facevano la novena di porta in porta con zampogna, fisarmonica e sistro (azzarinu), ed io, accovacciato tra le coltri, udivo quella nenia che veniva da lontano, nei vicoli dei rioni Timpa e Ariaporu del mio paese, per poi diventare musica e parole quando arrivava sotto casa mia, in via Sdrucciolo, oggi via Diaz, davanti alla chiesa del SS. Rosario di Benestare.
Di quel Natale non mi è rimasto che un ricordo struggente, specie in quelle ore del mattino, quando le campane richiamavano i fedeli alla messa dell’alba e la voce di Tumasinu, l’organista, con le sue canzoni dialettali natalizie, che cantava insieme a tutto un popolo, era il leit motiv di quelle funzioni liturgiche dell’Avvento.
Già dalle prime notti di novena, l’attesa dell’uno era l’attesa dell’altro, come lo era in chiesa dove Gianni ‘u tridicinu, verso le cinque, sempre puntuale, passava sotto casa mia per andare in chiesa a suonare le campane e, con l’intento di svegliarmi, parlava ad alta voce nell’alba dicembrina.
«Torn’arretu ‘i cinquant’anni
cu ‘na chjèsia chjna ‘i genti,
‘nc’era l’organu ch’i canni
e ddu mantici faglienti»
(Torno indietro di cinquant’anni, con una chiesa stracolma di gente, c’era l’organo a canne e due mantici traballanti).
Li azionavamo io e Gianni, i mantici, alternandoci, per consentire il passaggio del flusso d’aria necessario all’organo per suonare. Spesso, appena finita la messa, nei primi giorni di novena, si davano gli ultimi ritocchi al presepe, rigorosamente costruito con pietra calcarea o arenaria cesellata dal tempo, argilla, borracina (filicicchja e muschio che la Confraternita di allora andava col camion a raccogliere in montagna).
L’artista che realizzava il presepe era un falegname come San Giuseppe: mastro Giusi Cristarella, alla cui scuola fiorirono, nel tempo, altri mastri come Totò Carbone, che suonava la fisarmonica durante la novena di Natale per le strade del paese con Pepè Cristarella, Totò Graziano, mastro Nunzio ed altri giovani di allora. Alla scuola di mastro Giusi si forgiarono altri costruttori di presepe come Mommo Caminiti, Cecè Scopacasa, che ancora oggi danno prova della loro bravura, anche se con presepi notevolmente ridotti, rispetto al passato.
«Nta gli jorna ricordati,
prima ‘i rriva ‘u panettoni,
ndi facèvumu i mandati,
comu era tradizioni»
(In quei giorni ricordati, prima che arrivasse il panettone, ci facevamo le “mandate”, ci scambiavamo regali in natura, specialmente tra compari).
E questi regali erano prodotti della terra, o comprati nta putiχa, cioè nella bottega:
«Nu panaru ‘i mandarina,
‘na pinneglia ‘i baccalà,
ccocchj bella sammartina,
cosi di ll’antichità»
(un paniere di mandarini, una trancia di stoccafisso, qualche bella sammartina, cose dell’antichità).
Anche il baccalà, molto caro alle classi contadine, essendo molto apprezzato come pietanza ideale da portare nei campi, veniva offerto in regalo, allora, quando non c’era la corsa pazza ai regali natalizi da offrire in dono o da sistemare sotto l’albero.
Anche i bambini sentivano questo clima d’attesa del santo natale, giocando per le strade del paese con le nocciole, oppure manifestando la propria gioia spendendo i pochi spiccioli, che venivano loro regalati, per comprare torroni, susumègli (biscotti natalizi spalmati di cioccolato) e filoncini di pane ricoperti di giurgiulèna (sesamo) e imbottiti con mortadella tagliata a fette sottili dall’affettatrice che, a quei tempi, aveva solo Peppi ‘u lica nel suo negozio di generi alimentari. In quei giorni di novena...
«Cu glià panza semp’i fora,
Cicciu ‘u pacciu, m’a mmucciuni,
vindìa bumbi e scirfalora,
puru purbiri ‘i chjavuni»
Cicciu ‘u pacciu - il fuochista - a pancia scoperta, per le feste di fine anno, vendeva di nascosto, senza regolare permesso, bombe carta, tric trac, mortaretti, petardi vari e polvere pirica sfusa da inserire in un tubo cilindrico (chjavuni) della lunghezza di circa un palmo, munito di un percussore che, battuto contro un muro, tramite una cordicella, che collegava le due estremità,provocava uno scoppio.
Il primo giorno dell’anno, noi bambini andavamo a dare gli auguri ad amici, parenti e conoscenti facendo esplodere la polvere contenuta in questo tubo e racimolare così qualche soldo. Intanto, don Rorò Ammirato, famoso per i suoi dolci ricoperti di zucchero (c’u naspru), riempiva i negozi di generi alimentari e i bar con dolci natalizi vari, mentre mio padre, nel suo negozietto di generi alimentari davanti alla chiesa del Rosario, disossava lo stoccafisso in mezzo alla strada, presso una fontanella sulla piazzetta attigua. L’ansia per il natale cresceva di giorno in giorno.
Nelle case le buone massaie, oltre alle tradizionali zzippuli e nocatuli, facevano altri dolci come gli sputi d’angiulu e i passulati, a base di uva passa, noci, zucchero e cannella, specie di droga aromatica. Paula ‘a guerra era l’unica donna del mio vicinato che sapesse fare il torrone con le mandorle e ricoperto di zucchero, e ne andava così fiera che lo distribuiva a tutti i vicini di casa, mentre Delina, mia madre, era famosa per le zeppole croccanti con le alici, che mandava in regalo anche ai vicini di casa.
Nelle case del paese, tutti riuniti attorno ad un braciere, vecchi e giovani insieme, giocavano a tombola o a carte coi giochi della “stuppa” o del “sette e mezzo”.
Nel corso di queste lunghe serate natalizie venivano offerti fichi secchi fatti al forno ripeni di mandorle e zuccherati, oppure i classici dolci della tradizione natalizia con l’immancabile calia (ceci abbrustoliti) e fave infornate, in un clima di sana, e allegra cordialità. Non mancava la classica bumbuleglia (piccola brocca di terracotta dalla bocca stretta, con due manici ricurvi sui fianchi) dove bevevano tutti direttamente con la massima disinvoltura. In molte case, le famiglie mangiavano ancora, tutti riuniti, in un grande piatto di creta (nsalateri) e si pulivano la bocca allo stesso strofinaccio (aχχjeri), che usavano a turno.
Ma il ricordo del natale perduto è essenzialmente il ricordo di mia madre:
«Nc’era mama nta cucina,
senza mai mi pigghja abbentu;
era ‘u tempu d’a novina
e ‘u paisi era in fermentu»
(Stava sempre in cucina, mia madre, a natale, senza fermarsi un attimo; era tempo di novena, e il paese era in fermento).
Nelle case, si preparavano i sammartini (dolci natalizi) janchi e nigri (bianchi e neri) fatte con mandorle, noci, uva passa, zucchero, cioccolato, cannella e vino cotto.
Il paese era in fermento perché doveva nascere ‘u Misìa (il Messia), che tutti aspettavamo con una trepidazione e una solennità tipiche soltanto di una festa come il Natale, che ogni anno ci faceva essere più buoni perchè ci metteva di fronte alla nostra coscienza e ci dava l’opportunità di viverlo nella sua vera essenza, che era il culto per la famiglia e l’amore per chi aveva bisogno. E a distanza di quasi una vita, questi ricordi mi coinvolgono così emotivamente fino a domandarmi come sia potuto accadere che tre sole generazioni abbiano potuto scavare solchi così profondi tra due civiltà, quella contadina, che era la mia, alla civiltà contemporanea dove tutto si compra al supermercato, dove il natale si distingue dagli altri giorni solo per i regali che è costretta a fare e le immancabili luminarie che brillano nelle notte in quasi tutti i nostri paesi.
Che cosa è successo di così sconvolgente che una festa dell’anima sia diventata solo una festa commerciale e culinaria, che trova il suo momento culminante intorno ad una tavola imbandita la notte di natale?
Forse le nuove generazioni non conoscono l’importanza di una ricorrenza per mezzo della quale Dio si fa uomo, umiliandosi ad assumere la nostra condizione umana e andando a nascere, da Re, in una stalla, tra un bue e un asinello, come dice Luca, con delicata colorazione poetica, nel sesto e settimo versetto del secondo capitolo del suo Vangelo: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia perché non c’era posto per loro nell’albergo».
Possono il benessere economico e i mutamenti sociali e comportamentali dell’uomo, che passa le serate davanti alla televisione, o navigando nei mari tecnologici di internet, stravolgere il senso di una ricorrenza che, coinvolgendo tutta la famiglia, una volta, coinvolgeva anche la sfera più intima dei sentimenti, per ridursi ad una semplice festa scaduta, alla fin fine, ad una riunione conviviale, senza rendersi conto dell’importanza e del vero significato del messaggio evangelico della Natività?
«É Natali, com’è chi n’o sentiti?
C’arrivaru i papatuli e la stiglia
vu’ c’’u prisepiu mancu lu viditi,
ca diventau‘na cosa chi si zziglia»
(É natale, com’è possibile che non lo sentiate, che sono arrivati i pastori e la stella cometa, voi che il presepe nemmeno lo vedete, perché è diventato una cosa da buttare?).
Ma per rivivere quel natale di cui parlo, bisogna che l’uomo torni a Dio e riconosca in Lui il suo creatore, alle cui leggi deve sottostare avendo rispetto del prossimo e della vita stessa. L’uomo d’oggi crede di trovare nel denaro quella pace e quella serenità interiore, che ha smarrito per aver voluto cambiare le leggi scritte da Dio, che sono eterne.
«Natali, chista nova societati
‘u senti sulamenti nte gudeglia,
nte ristoranti e nte supermercati:
ma non esti Natali, è pascareglia»
(Natale, questa nuova società, lo sente soltanto nello stomaco, nei ristoranti e nei supermercati: ma non è Natale, è pasquetta).
E questo succede quando il rifiuto di Dio è il rifiuto alla vita stessa, il rifiuto ai bambini che l’uomo si sente in diritto di uccidere prima che nascano, anche se poi dice di essere contrario alla pena di morte.