Carnevale in Aspromonte: "Nicola, l'ultimo Aedo"
- Gianni Favasuli
Carnevale impazzava e, per le strade, gli scherzi, compresi anche quelli di pessimo gusto, si susseguivano a catena. Il vecchio e macilento asino di Vincenzo Altomonte fu legato al furgone d’Ignazio Futia e quando questi, ignaro, vi montò sopra e partì sgommando, la povera bestia che non aveva più neanche la forza di ragliare, dopo un’estenuante corsa, ansimando affannosamente, tirò le cuoia.
Rocco Caminiti e Francesco Borghi, due grandi mattacchioni, d’intesa con Edoardo Serra, il postino, fecero recapitare a Giovanni Nisticò, l’aggiusta ossa famoso in paese per la sua patologica tirchieria, una lettera dove si leggeva che il suo nome era stato estratto a sorte fra gli abbonati alla televisione. Per tanto, aveva vinto un milione di lire.
IL TACCAGNO abboccò come un pesce all’amo e dalla gioia non stava più nella pelle. Così, quando gli artefici della burla qualche sera dopo andarono a trovarlo – adducendo Rocco la scusa che una malconcia, dolorante caviglia gli faceva vedere i sorci verdi – lui se ne stava beatamente spaparacchiato davanti al caminetto. «Esimio signor compare – esordì Francesco Borghi – questa sera mi sembrate più vispo, più allegro del solito! A vedervi, uno giurerebbe che abbiate fatto, come minimo, un terno al lotto! Mi sbaglio? È una mia impressione?». «Non vi sbagliate affatto! Sono diventato milionario! Milionario! Cari miei, dovete sapere che giorni fa il postino mi ha consegnato una lettera della raitivù dove m’informano che ho vinto un milione di lire!
E PENSARE che se non fosse stato per mia moglie, per le sue continue insistenze, io la televisione non l’avrei vista manco con il binocolo! Non l’avrei comprata manco se mi fucilavano! Credetemi, mai e poi mai avrei sperperato il denaro per acquistare quest’inutile apparecchio… questa diavoleria!» gli rispose raggiante Giovanni mentre s’apprestava a massaggiare, a torturare, la caviglia di Rocco.
«Complimenti! Complimenti!» cinguettarono, all’unisono, i due mattacchioni. «Esimio signor compare siete stato baciato letteralmente in fronte dalla buona sorte! La fortuna, come ben sapete, dalle nostre parti passa ad ogni morte di Papa! Bisognerebbe, a questo punto, festeggiare alla grande questo lieto avvenimento, questo vostro gran colpo di… culo!» azzardò Francesco facendo l’occhiolino al socio che, sdraiato sopra un divano, si contorceva come un’anguilla per il dolore che il vigoroso massaggio gli procurava e malediceva il momento in cui gli era balenata l’infelice idea, l’infelice trovata.
POI, CON UNA SMORFIA di dolore, mellifluo, ammonì Francesco: «Bello mio, per tua norma e regola, tieni ben presente che don Giovannino Nisticò, sia nella buona che nella cattiva sorte, è stato e sempre sarà uno scialone! Un galantuomo! Uno che, cadesse il mondo, in qualsiasi situazione non si tira mai indietro!». Al che, l’aggiusta ossa, anche per avvalorare quella tesi, quei complimenti che lo riempivano d’orgoglio, dopo avere spalmato sulla caviglia tutta rossa, già gonfia e dolorante, questa volta, per davvero, una strana, nauseante mistura, si precipitò in cucina. Quando fece ritorno, in una mano reggeva un capiente fiasco di vino e nell’altra due lunghe ed invitanti salsicce. Era fatta! Per la prima volta, a memoria d’uomo, don Giovannino Nisticò, l’esimio signor compare, era stato magistralmente gabbato!
IL PAESE, quindi, in quei giorni dismise il vecchio e sdrucito abito della noia e scese in strada con un abbigliamento più variopinto, più consono allo spirito della festa.
Nicola Tebaldi, con la faccia nera di carbone, l’ultimo aedo, l’unico sopravvissuto di una folta schiera di analfabeti poeti vernacolari – che lì al vecchio paese, ormai irrimediabilmente perduto e lontano, sepolto dalle frane sui selvaggi versanti dell’Aspromonte, nei giorni di carnevale, nella piazza antistante la chiesa con dei campanacci appesi al collo, vestiti con velli di pecora e con pantaloni di lana grezza, d’orbace; con le calandrelle ai piedi, con le loro farse, con la loro garbata, pungente, feroce ironia, prendendo in giro i notabili, i decurioni, facevano ridere a crepapelle la gente che tra mille difficoltà e privazioni tirava a campare.
NICOLA TEBALDI, spavaldo e malandrino Carnilevari dei tempi che furono, sempre pronto a fregare ricchi massari e non sprovveduti locanderi, recitava ancora, gesticolando in modo vivace ed eccessivo, con i lucciconi agli occhi, in ogni bettola ed in ogni via, tra i lazzi dei monelli, i versi mai scritti di quei certami, di quei cimenti di cui lui solo, ormai, aveva memoria:
Vidìti si ‘nc’è postu pe’ dormìri
pe’ mmia, ‘u cavàgliu e lu cucchjéri;
vidìti si ‘nc’è ‘Ntoni Favasuli,
sinnò cu’ mi portàu mi torna arredi.
No ‘nci dicìti ca esti ‘u settùri,
ca p’â Batìa si menti a fujîri
comu gurpi ssicutàta d’î cani
e ad Africu non lu viditi cchjùni!
Non mi ti pari ca ‘ndaju pagùra!
Di nenti si spàgnanu li massàri!
Tu ‘ndai ‘a bucca chjîna di sarmùra
ed eû li burgi chjîni di dinàri!
‘U sàcciu ca dinàri vu’ ‘ndavìti,
siti riccu di vacchi e di crapi,
ma ‘nta Micu Romeu spissu trasìti,
tabaccu a la cridénza mî pigghjàti!
Nicola Tebaldi, l’ultimo scampolo d’anima di un popolo ormai alla deriva, raccontava ancora quando la notte del martedì grasso, dopo giorni di sciali e di baldoria, Carnilevàri, ormai moribondo, al lume della teda, adagiato sopra una lettiga approntata alla men peggio con delle assi di legno, veniva portato in processione per le anguste vie del paese, accompagnato dagli schiamazzi dei ragazzi e dal pianto a dirotto d’improvvisate, improbabili prefiche che si battevano il petto e si scarmigliavano i capelli per l’imminente e prematura dipartita di chi aveva portato la festa, una ventata di gioia.
Nicola Tebaldi, l’ultimo depositario di un mondo spazzato via da una rovinosa alluvione, insegnava che oggi come allora, bisogna sapersi districare con abilità nel ginepraio della vita; insegnava che bisogna sapere cogliere al volo l’attimo propizio per gabbare, minchionare il prossimo; insegnava che bisogna mettere una maschera al banale e all’abitudinario e vestire in modo bizzarro i giorni che, come la teda, si consumano lenti, senza sussulti.
Nicola Tebaldi, analfabeta, insegnava che bisogna sempre ritrovare in una celia, in una burla, la voglia di vivere.