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Credenze popolari, come si “sciumicava” una volta

  •   Franco Blefari
Credenze popolari, come si “sciumicava” una volta

Le credenze popolari hanno sempre guardato con molto interesse al mondo dell’occulto, conferendo agli esperti nell’arte dello scongiuro, che conoscevano molto bene i segreti della magia bianca, un’aureola divinatoria.

Non si spiega diversamente, infatti, il ricorso che una volta si faceva a queste persone, che volevano apparire profondamente cattoliche, anche se operavano nel campo dell’occulto, facendo pratiche divinatorie ed esoteriche che in genere sono contro la morale cristiana, avendo come culto Satana. Ma il popolino credulone, formato da gente che lavorava i campi, pur andando in chiesa, non sapeva che era peccato affidarsi con vera fede a questi maghi che, quasi sempre, dicevano di avere tolto ‘u pivulu (il malocchio) dalla persona che ne era stata colpita. E succedeva che, spesso, invece di affidarsi alla medicina, o rivolgersi direttamente a Dio, per qualche male fisico o qualcosa che proprio non andava bene, ricorrevano anche al fai da te per i bisogni più immediati… Una delle prime pratiche consisteva nel portare in tasca un po’ di sale o portare addosso qualche cornetto d’oro, se non rosso, che appendevano in macchina oppure esponevano davanti ad un’abitazione, nella stanza, o sulla culla dei bambini. In tempi passati, più che remoti, si faceva ricorso anche alle corna di capra o di bue, che venivano esposte davanti ad un’abitazione per preservare dal malocchio chi vi abitava, o si appendeva un panno rosso al balcone o ad una casa in costruzione. Una pratica vera e propria, largamente usata per togliere il malocchio (sciumicari), era quella che prevedeva la presenza, sul luogo dello scongiuro, della persona contro cui era stato indirizzato l’influsso malefico, oppure far pervenire a chi praticava questo tipo di magia bianca (da non confondere con quella nera, che poteva essere letale per la persona contro cui veniva praticata) un oggetto che le appartenesse e di cui si serviva spesso, come un fazzoletto, oppure una fotografia.

Non occorreva essere maghi – dicevano certi esperti in materia – per purificare chi era stato colpito da un male occulto, cacciari ‘u pìvulu insomma, ma solo conoscere tutto il rituale magico che bisognava osservare facendo questi scongiuri. Se la pratica veniva fatta davanti alla persona interessata, il “guaritore” gli praticava sulla fronte per tre volte il segno della croce col pollice destro, dicendo: «Cu’ t’affrosciau, ‘u cori ti ntassau, ‘u cori cu la menti, ‘u frasciu non è nenti» (chi ti ha afflosciato, il cuore ti ha gelato, il cuore con la mente, ma il male non è niente). Il guaritore rifaceva per altre cinque volte il segno di croce sulla fronte della persona docchjata, cioè colpita dal malocchio, aggiungendo: «Sapienza e santi vangeli, ogni cosa storta ‘i stu cristianu pammi speri: s’è occhju, malocchju, jettatura, malincunia, pìvulu, fattura,‘i si ndi vaji nto mari, aundi non avi non nimali e non cristiani, a nomu di la Santa Sampasia, nuglia cosa poti pigghjari si non passa ‘i manu mia» [sapienza e santi vangeli, sparisca ogni cosa cattiva da questo cristiano: se è occhio, malocchio, iattura, malinconia, pivulu, fattura, che se ne vada in mare, dove non ci sono né animali né cristiani, in nome della Santa Sampasia (intraducibile), nessun male possa avere effetto se non passi dalle mie mani].

E intanto, dopo avere fatto incrociare le mani della persona da guarire per tre volte, le faceva ripetere l’esercizio anche coi piedi, prima per tre e poi per altre cinque volte, riprendendo ad enunciare la sua formula magica di scongiuro: «Occhju di mari e lupu di montagna,‘u peri, mi squagghja e mi si ndi vaji ‘nto mari aundi non avi non nimali e non cristiani, e a chigliu locu aundi poti stari. A nomu di la Vergini Maria, tutt’i cosi storti ‘i si ‘ndi vannu p’’a via» (occhio di mare e lupo di montagna, che perisca, sparisca, andandosene nel mare dove non ci sono né animali né cristiani. In nome della Vergine Maria, tutte le cose storte se ne vadano per la via). Il guaritore che aveva operato la pratica dello scongiuro incominciava a sbadigliare in attesa di notare se la persona da guarire incominciasse anche lei a fare lo stesso (χjarmijari), cosa che, immancabilmente, succedeva subito per contagio, ricevendo così il segno delle sue avvenute intercessioni presso gli spiriti invocati.

Quando ciò avveniva (quasi sempre), il guaritore emetteva la sua diagnosi: che “l’ammalato” era stato docchjatu e che gli effetti malefici del malocchio erano stati scacciati via. Ma la pratica di scongiuro più diffusa, ancora oggi, fra i ceti sociali più bassi del mondo rurale, è quella che si esegue con una tazza piena d’acqua nella quale vengono versate alcune gocce d’olio. Se l’olio, invece di restare concentrato sulla superficie dell’acqua in un’unica goccia, si sparpaglia, significa che la persona da guarire è stata docchjata, cioè ha ricevuto il malocchio. In tal caso, il guaritore dà inizio ad alcune formule di scongiuro, dette a mezze frasi sulle labbra, senza far capire nulla ai presenti, ripetendo continuamente tutta una litania con una serie di croci fatte sulla fronte “dell’ammalato” per debellare il male occulto. La conferma che l’individuo è stato realmente docchjatu avviene solo dopo che il guaritore, o (quasi sempre) la guaritrice, incomincia a χjarmijari, cioè a sbadigliare per alcune volte, mentre tra le persone presenti si avverte un senso di liberazione per l’avvenuta guarigione e un «Oh…» prolungato di compiacimento suggella così un rituale che, come si dice in questi casi, trova il suo fondamento nella genesi agreste di quella gente semplice che c’era una volta, perdendosi lontano nella notte dei tempi.

Eppure, nonostante prendiamo le distanze da quel mondo di ieri, che qualche volta ha visto anche noi bambini “vittime sacrificali” di qualche rito per scongiurare il malocchio, specie quando la mamma ci diceva che eravamo docchjati perché non volevamo mangiare, prendere la purga di olio di ricino o avevamo la febbre, la nostalgia per quel mondo fatto di piccole-grandi cose, ritorna intatta sulle ali della memoria. E questo non perché vorremmo tornare bambini, ma perché a molti di noi manca la purezza di quel mondo e di quella gente che era fedele alle leggi di Dio e degli uomini, anche se si affidava alla magia per guarire un male psicofisico! Ma erano generazioni che hanno scritto pagine di storia indelebile di lotte per sopravvivere, guadagnandosi il pane col lavoro dei campi, e sacrificandosi per le cause giuste della vita… «É una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere – scriveva Corrado Alvaro – ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie», vorrei ripetere anch’io le parole del mio quasi compaesano di San Luca, ma non lo faccio, perché chissà quante e quante volte le abbiate lette e rilette… 


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