Parole nella cucina calabrese. Il dialetto dalla A alla Z
- Redazione
accia: il sedano. Molto usato in cucina.
arriganatu: con l'origano. Il pesce fritto arriganatu, cotto in padella con olio di oliva e spolverato con origano e pepe rosso. Specialmente le alici.
bàttiri: i fiammiferi di zolfo, da cucina e per tutti gli usi domestici e non. Ogni contadino ne aveva una scatola nelle tasche, in compagnia di cartini per arrotolare le sigarette e del paccottu du tabaccu.
bianchettu: i bianchetti, pesciolini allo stato nascente, di colore bianco, con gli occhi a puntini scuri. Viene pescato nei mesi freddi. Da ragazzo ho visto alla Marina il sistema di pesca. Una barca si allontana dalla riva portandosi dietro la rete, fa un giro e torna a riva dove i marinai in attesa tirano la rete dai due capi finché non arriva sulla spiaggia. La sacca, fatta di rete con maglie fitte, viene issata con cautela e il contenuto versato nei contenitori. Ricordo che una tornata ha dato scarso risultato e il capo pescatore ha bestemmiato come un turco, a freddo, apparentemente senza agitarsi. Viene anche detto biancumangiari.
Viene mangiato fresco con limone, fritto con pepe rosso, oppure cotto in frittata o a frittelle. E' il componente base per la sardella (a sardedda), la specialità calabrese più nota.
caccioffuli: i carciofi. Conoscevamo solo quelli selvatici con le spine. Al tempo giusto qualcuno andava col paniere, nelle campagne assolate. A volte sui declivi ripidi fuori del paese, noi ragazzi col coltellino, nonostante le spine, riuscivamo a raccoglierli e mangiarli raschiando coi denti la parte tenera delle foglie.
cannaliata: aggettivo per indicare una pietanza che, trascurata, sul fuoco ha finito per bruciarsi. Esempio la pasta al forno.
a cannata: brocca in terracotta per il vino. Mio nonno la usava per andare a spillare il vino du carracchiu che teneva ntu catoiu.
a capasa: il recipiente di terracotta per le olive in salamoia. A capasedda, u capasunu, recipienti più piccolo e più grande. Un mio carissimo compagno di scuola si è sorbito il nomignolo di capasunu. Aveva la testa grossa.
i carduni: i cardi. Anche i cardi oltre le ortiche erano molto diffusi nella zona della Cacovia. Erano di due tipi, quelli che crescevano inchiodati nel terreno con una solida radice e con le foglie spinose in orizzontale e quelli che crescevano in verticale. Entrambi per noi ragazzi avevano una certa importanza. Quelli orizzontali avevano una radice dolce da mangiare, per cui estirpata dal terreno e levata la scorza si mangiava come una carota. Quelli in verticale venivano tagliati prima che il fusto diventasse legnoso e scorticati presentavano un buon tubero dolce. Noi ragazzi avevamo sempre un coltellino in tasca per cui non avevamo problemi con le foglie spinose dei cardi.
a carna: la carne. A parte la carne di maiale, che segue tutta una sua storia, la carne a Cirò era quella che si comprava ara chjanca, in macelleria. Era sempre carne di ovini: capra, capretto, castrato, pecora e agnello. Raramente la carne bovina. La carne a volte si conservava, con le dovute ricette, nei recipienti di terracotta, i salaturi o terzaluri. In mancanza di questi a volte si usavano i recipienti disponibili. Così è nata a carna ncantarata, la carne messa a salare nel cantaro di riserva.
i chinuliddi: dolcetto tipico di Cirò e forse di tutto il Meridione. Prodotto da forno fatto di pasta dolce ripieno di mustarda, marmellata di uva nera.
a cicculatera: la caffettiera. Era un contenitore tronco conico in lamierino, con manico e coperchio, in cui si metteva a bollire del caffè in polvere con acqua. Più spesso si trattava di orzo tostato e macinato ccu ru macineddu. Scolmato il liquido nelle tazzine dopo breve riposo, si buttava a posima.
i cipuddizzi: specie di cipollette selvatiche molto apprezzate nel Meridione per il sapore amarognolo. In tutto il Settentrione, in molti negozi, dove ci sono meridionali, si trovano le cipollette, i lampaggioni. E' un ritrovare i sapori di casa. Za Laura, una vicina di casa, quando aveva il mal di testa si incollava dischetti di cipuddizzi alle tempie.
cocula: il rosso dell'uovo. Si dice anche a cocul'e l'occhiu.
codara, quadara, codararu, corararu: caldaia, calderaro. Era un attrezzo molto utile nelle case. Si faceva il bucato, si faceva il sapone con le morchie dell'olio, si faceva il grasso dalle cotiche (frittuli) del maiale, eccetera.
u coppinu: il mestolo.
corchjula: scorza, cotenna, involucro. Si dava della corchjula a una donna troppo magra.
coriari: riscaldare.
crisciutu: quando si è finito di preparare i dolci, di lavorare la carne del maiale macellato, di fare qualcosa di importante, non si dice di aver finito, per scaramanzia si dice: ami crisciutu, abbiamo finito. Crescere, forse nel senso di aggiungere una tappa ad un percorso già iniziato e che deve continuare. Per questo augurale. Altro è il crescere del bambino. Mia nonna diceva di me che mi aveva crisciutu, allevato.
u crivu: il crivello, a cernitura da farina, setacciare la farina per fare il pane.
a cucuzza: la zucca. Molto usata nella cucina contadina. Ricordo le frittelle che faceva mia nonna con la zucca gialla a filetti. Jur'e cucuzza, per fare frittelle, taddi e cucuzza preferiti per fare la zuppa. Era molto nota anche la cucuzza longa, la zucca d'acqua, che mio nonno a Brisi piantava vicino al pozzo. Si cuoceva in un brodetto leggero insaporita con formaggio. C'era anche un famoso detto (vedi anche: proverbi).
i fogghj: le cicorie. Erano verdure raccolte nelle campagne, che ognuno poteva raccogliere per le proprie esigenze. Ma c'era anche chi ne riempiva dei sacchetti che vendeva a qualche famiglia amica. Tagliate le foglie secche e le radici e lavate in acqua abbondante per eliminare la terra si lessano in acqua bollente e si mangiano con olio e sale oppure passate in padella con aglio e olio d'oliva. Una delle pietanze più note era la cicoria con i fagioli.
i funci: i funghi. Nei boschi attorno al paese i funghi erano in abbondanza. I tipi che ricordo erano i funci ordinari, i funci rattaluri, i funci e mucchj, i feddurazzi, i muss'e voju. Forse ce n'erano di altri tipi, fatto è che ogni cirotano conosceva i suoi posti e se li custodiva gelosamente. Ricordo che i funci ordinari erano profumati e si trovavano in fila sotto gli alberi, i rattaluri dovevano essere i lattarelli, i funci e mucchj si trovavano in mezzo ai cespugli detti appunto mucchj, i feddurazzi erano funghi a cappella larga, i muss'e voju erano funghi che crescevano sui tronchi di certi alberi. I rattaluri mi pare fossero tipi da conservare in salamoia o sottolio, ma non ne sono sicuro, gli altri venivano cotti in prevalenza fritti con olio di oliva, aglio e prezzemolo, oppure impanati.
u lanzu: sono dei granellini neri profumatissimi che si raccolgono in Sila e sono acquistati in prevalenza dai fornai per fare i taralli. Una volta veniva un uomo che girava il paese per vendere il lanzo che teneva in un sacchetto e usava come misurino un ditale. Allora i taralli li facevano le donne di casa quando facevano il pane.
maccarrunaru: il mattarello, il bastone che serve per spianare la sfoglia delle tagliatelle subb'u jestilu.
maccarruni: maccheroni, in italiano, ma in dialetto è sinonimo di tagliatelle. Celebri nella cucina calabrese i maccarruni a ferretti, che venivano fatti non con la sfoglia ma sfilando la pasta e tagliando circa a quattro dita, dopodiché si infilava per la lunga il ferro da calza e si sfilava, lasciando il buco nel maccherone. Venivano cotti in acqua bollente e conditi con ragù o con pomodoro, sformaggiati con pecorino. E' rimasto il detto in paese: maccarruni, scinni u scalunu e ssi diunu,maccheroni, scendi il gradino e sei digiuno (facilmente digeribili).
macineddu: il macinino del caffè. Era anche il soprannome di un ragazzo cirotano, forse per i suoi modi sbrigativi.
maidda: madia per il pane. Attrezzo frequente in molte famiglie contadine, usato non solo per fare il pane.
i legumi: ciciri, pisiddi, lenticchia e cicerchia, ceci, piselli, lenticchie, cicerchia, favi e favareddi, fave e favette, a suraca, l'occhjnivuri, fagioli, fagioli occhineri.
a levata, u levatu: il lievito. Si passava da una famiglia all'altra per fare il pane. Quella che l'usava aveva l'obbligo di conservare un piatto di pasta lievitata.
na mappina: la salvietta usata in cucina. In senso figurato: trattare come na mappina, trattare male una persona.
i meruchi, i mericuni, i dormituri: le lumache, le lumache di terra, le stesse raccolte ancora dormienti sottoterra. Le lumache rigate si trovano sui cespugli nelle vicinanze del mare o in posti particolari conosciuti da pochi. Le lumache, che io chiamo di terra, si raccolgono sul terreno con le prime acque dell'autunno. A Cirò era quasi una festa, molta gente munita di panieri si recava nei prati a raccogliere i mericuni appena usciti dal terreno. Le stesse lumache dette dormituri si raccolgono durante l'aratura dei terreni, ancora chiusi con la bava bianca solidificata sul guscio. Di recente ho visto uno strano reperto calcareo in casa di mio fratello Pasquale. Ho chiesto notizie e mi ha detto che si trova una cava di materiale calcareo in cui crescono le lumache. La cava è un viavai di gente che ne riempie sacchi e sacchetti, naturalmente al di là dei bisogni personali, tanto che ormai cominciano a scarseggiare.
a minesta: la minestra. Nelle famiglie contadine non mancava mai il piatto della minestra. La più frequente era la minestra di maccarruni: tagghiarini o maccarruni a ferretti, condita con salsa di pomodoro olio d'oliva e formaggio pecorino, oppure con ragù di carne ovina e formaggio stagionato e pipubonu (pepe nero in grani pestato ntu mortalu, nel mortaio). Per i più poveri c'era la minesta sconsata,quella senza condimento, oppure scodata che indicava la minestra appena scodellata, calda fumante ma senza nemmeno un goccio d'olio.
u misalu: la tovaglia, minta u misalu subba a banca, metti la tovaglia sulla tavola.
u mmuddagghiu: il turacciolo, che poteva essere di stoppa, di legno e di sughero. Nei miei ricordi i turaccioli di stoppa venivano usati per jaschi e jascareddi, fiaschi e fiaschetti, quelli di legno per i varrili, barili per acqua e vino, e quelli di sughero per le damigiane.
u morzeddu: la colazione che si porta in campagna, un cantuccio di pane di grano duro, scavato nel centro, con dentro qualcosa che rimane della cena o nel peggiore dei casi semplicemente olio di oliva. E' diverso dalla spisa, perché si mangia alla mattina, quando si arriva sui campi. La spisa si mangia a mezzogiorno. Nelle osterie di Crotone e Catanzaro forniscono u morzeddu, un pezzo di pitta con dentro uno spezzatino molto pepato e grasso fatto di frattaglie. Una leccornia calabrese.
morzulunu: un morso al pane, un pezzetto staccato coi denti.
a mustarda: la mostarda cirotana, fatta con le uve nere, fatte bollire lentamente per un tempo sufficiente a farla diventare una marmellata. Guarnita con le noci e spolverata con un po' di cannella e conservata nei vasetti di terracotta. Una vera leccornia.
u panicottu: pane cotto. Era il pancotto che si faceva con le croste di pane duro fatte rinvenire nell'acqua calda e condito con olio d'oliva. Si dava da mangiare ai bambini piccoli ancora senza denti. Spesso oltre al latte materno era il solo alimento. Anche il latte di capra, che anche se disponibile, al contrario del latte vaccino, non sempre le famiglie povere se lo potevano permettere.
u panu: il pane. Panu e ranu, panu rossinu, pitta e pizzata, muffetta e mucceddatu, cudduredda. Panu e ranu, pane di grano duro tondo di colore marrone dorato, tipico del pane di semola, fatto con la farina migliore; panu rossinu, pane integrale di dimensioni più piccole fatto con farina tra la prima setacciata che separa la crusca e la seconda che separa la farina bianca. La pitta è una ciambella morbida e piatta che va mangiata calda di forno fatta con la farina usata per il pane; la pizzata non è tonda ma di forma simile alla mezzaluna, di qualità simile alla pitta; la muffetta è simile alla pizzata ma con farina integrale.
U mucceddatu è anche esso una ciambella particolare fatta a guisa di rosario, che risulta più duro della pitta. A cudduredda è una ciambellina fatta per i bambini, che sfornata si mangia subito. Questa tipologia ha una attinenza con la sequenza di infornata: per prima vanno in forno le cudduredde, col forno caldissimo, sfornate subito, poi in sequenza pitte pizzate muffette e mucceddati sfornati appena si rigonfiano e si colorano, poi il pane e, quando c'è, u panu ròssinu, che sostano nel forno per più tempo. D'estate si fanno anche le gallette di dimensioni pari a una metà del pane, si fanno cuocere molto per indurirle. Si mangiano dopo averle bagnate e avvolte in un tovagliolo per asciugarle. Una insidia frequente è la muca, cioè la muffa, si parla allora di panu mucatu che finisce poi nel pastone dei maiali.
petrusinu: il prezzemolo. Usato in cucina molto di frequente, presente in molte ricette cirotane. Petrusinu ogni minesta, si dice di qualcuno che sa tutto di tutti, che si intromette spesso, ecc.
i pimmadori: i pomodori. Ortaggi assieme ai peperoni sempre presenti nella case contadine.
u pipu, u pipu bonu: il pepe rosso macinato sulla pietra, u pipu bonu il pepe nero. Merita un accenno a carticedda e pipu, un cartoccetto di carta gialla con alcuni grammi di pepe rosso macinato. Era un piccolo commercio fatto da alcune donne di casa per farsi qualche soldo. Il commercio spicciolo era molto praticato da privati che vendevano ortaggi, legumi e altri prodotti di propria produzione. Tipico l'acquisto di panieri di olive, che le raccoglitrici si portavano a casa alla sera, da parte di certe persone che ne ricavavano l'olio che poi vendevano al piccolo commercio.
u pupuliddu: sta per pupazzetto, ma in pratica era un pezzetto di stoffa bianca in cui veniva messa un po' di cenere, e legato con un filo, si introduceva nella pignata dei fagioli o dei ceci, messa al fuoco, per fare cuocere i legumi. Non so perché l'immagine mi fa venire in mente un bambino di una famiglia della Cacovia che accudiva un fratellino, mentre i genitori erano al lavoro. Mi diceva che per farlo mangiare sua madre gli aveva messo una pignatedda di fagioli, che cuocevano al fuoco di due piccoli tizzoni accesi accostati, nel focolare.
Allo stesso modo u pupuliddu con lo zucchero faceva da ciuccio per i neonati.
a rama: era tutta l'attrezzatura della cucina che di solito era di rame battuto. Anche questa era di pertinenza della sposa. A questo, come per il corredo, si procedeva alla compera un po' alla volta. Così un bel giorno si compravano i tegami, poi le padelle, la caldaia, le posate, eccetera. Era uno stillicidio dei poveri risparmi delle famiglie. Durante la guerra hanno requisito anche la rama. Ho visto fare a pezzi le caldaie di rame e altri attrezzi da un fabbro nerboruto e sporco di fuliggine in una bottega di fabbro. Arrivava poi un camion e portava via il tutto. Quella gente forse non sapeva che faceva a pezzi anche il cuore alla povera gente.
a rametta: la gamella, da portare fora, in campagna sul lavoro, con la spisa, dentro la quale si metteva qualcosa che non doveva perdere l'unto. Il ricordo più importante è quello di Jola, una ragazza che venne con noi a vendemmiare al Vallo. Quando ci siamo seduti per terra e abbiamo aperto la spisa lei presa la sua rametta l'aprì e cominciò a mangiare con un cucchiaio i peperoni arrostiti piccanti conditi con olio d'oliva. Ogni tanto mordeva anche il pane di grano a fette. I suoi occhi erano un fiume di lacrime.
sardi salati, sardi saliprisi, sardedda: Sarde salate col pepe rosso, sarde salate senza pepe, bianchetti col pepe rosso. Sono specialità cirotane, e non soltanto. Una brava donna di casa deve saper fare tutte queste cose. E' solo un mestiere femminile, che si tramanda da madre in figlia. Quando ero ragazzo queste cose facevano parte della dieta normale delle famiglie, si mangiavano sul pane dei bambini, si mettevano nella spisa di chi andava a lavorare in campagna. Oggi sono specialità ancora artigianali, che si gustano per richiamare antichi sapori.
scanari: formare i pani con la pasta lievitata, ha scanatu, ha finito di fare il pane.
scapare: staccare la testa alle sarde da salare.
a scilibretta: a Cirò la scilibretta era una rarità, perché era possibile farla quelle poche volte che nevicava. La neve raccolta sui tetti, perché più pulita, veniva mescolata col caffè, col vino cotto o con le ciliege sciroppate.
scupulunu: u scupulunu du furnu, lo scovolo del forno. Era una pertica lunga alla cui estremità era legato uno straccio voluminoso che veniva prima bagnato e poi introdotto per la bocca del forno per ripulire il pavimento del forno dalle tracce di cenere. Si evitava in tal modo che il pane attaccasse la cenere sulla crosta. La cenere veniva tirata fuori dal forno con un'altra pertica alla cui estremità era montata una mezzaluna di legno perpendicolare all'asse, u rasteddu. La cenere finiva sul davanti del forno in una buca dove poi si cuocevano patate e cipolle, sotto la cenere.
i spargi: gli asparagi. Erano poi gli asparagi selvatici, l'asparagina, che si trovavano in campagna. Appena spuntavano, per noi ragazzi erano da cogliere. Si buttavano sul fuoco, fatto lì sul posto, e appena cotti si mangiavano, un po' alla rustica.
i tagghiarini: tagliatelle. Mia madre, come tutte le donne di casa di Cirò, faceva la sfoglia sul tagliere (u jestilu), la lasciava asciugare, poi l'arrotolava, quindi col coltello che prendeva dal tiraturu da banca (tiraturu sta per tiretto e banca sta per tavolo) la tagliava con una velocità tale che destava la nostra meraviglia. Poi districava i rotoli sul tagliere sicché alla fine c'era un prato di tagliatelle su tutta la superficie del tagliere. Alla sera, quando tornava mio padre dalla campagna, si metteva in tavola la pasta, che era quasi sempre al pomodoro.
i taratufuli: i tartufi. A Cirò si trovava il tartufo nero. Ma pochi sapevano i posti dove si poteva raccogliere. Naturalmente, c'era chi magnificava il tartufo bianco, che aveva visto in Altitalia, e che, secondo lui, aveva le caratteristiche particolari di attivare le capacità sessuali.
i tiraddi: i taralli. I tiraddi scodati erano i taralli passati nell'acqua bollente, poi asciugati e fatti cuocere al forno. Restavano lucidi e croccanti. Nelle famiglie non mancavano mai. Non c'era un bambino che uscendo di casa a giocare non avesse un tarallo in mano. Oggi i taralli sono un prodotto che si è guadagnato il posto persino nei supermercati. Hanno inventato anche i tarallini di pasta dolce ricoperti di zucchero.
u timpagnu: disco di legno con una tacca, usato nei tarzaluri o salaturi per sostenere il peso, generalmente una pietra tonda detta pisalura, sovrapposto alla parte salata, che poteva essere sarda, sardella, peperoni. La tacca serviva per la fuoruscita della salamoia e per riuscire a sollevarlo, quando occorreva, infilando un dito.
u tiraturu: il tiretto, il cassetto, u tiraturu da banca, il cassetto della tavola. Era il posto più frequentato della casa. Oltre alla credenza era il posto dove si trovava da mangiare. Noi ragazzi eravamo sempre a rovistare per un tozzo di pane o per prendere il coltello e tagliare una fetta di pancetta appesa al muro da mangiare col pane.
a vaianedda: i fagiolini. Le fave fresche (i favi frischi) erano dette i vaiani. C'era anche un riferimento sessuale, a vaiana, nel gergo cirotano, era anche il sesso maschile.
a vammàcia: bambagia, cotone.
a varola: la padella per le castagne. Le castagne arrivano con la stagione fredda. Col freddo ben volentieri si mangia qualcosa di caldo. Da bambini il profumo delle castagne arrostite ci mandava in visibilio. Ricordo ancora quell'uomo anziano in piazza che per qualche soldo ci vendeva le caldarroste che portava in un sacchetto appeso al collo. Erano molto comuni anche le castagne secche, i pastiddi, che si sgranocchiavano mentre si giocava.
u vasinicolu: il basilico. Molto usato in cucina soprattutto con la pasta al pomodoro.
i vrocculi: i broccoli. Nu vrocculu, un brocco, uno stupidone.