Frittulati e festa i Madonna, una nostra tradizione
- Mimmo Musolino
Il fatto
Quando vidi sulla piazza di fronte alla chiesa di Saline joniche a ferragosto e poi, nei giorni scorsi, anche per le vie di Reggio Calabria durante le feste per onorare la Madonna della Consolazione, delle cardare poggiate supa i trippedi roventi, per effetto di brace ardenti, ed un uomo, u frittularu, con una lunga cucchiara i lignu in mano, che attentamente saggiava i tempi di giusta cottura, compresi subito che quel rito poteva appartenere soltanto ad una avvenimento: la preparazione delle prelibatefrittole derivate dalle carni di maiale.
Ma erano tante le cose che non quadravano secondo tradizioni e tempi!
I frìttuli significavano una delle più antiche e attese tradizioni della cucina casareccia dei nostri paesi, soprattutto quelli dell’Aspromonte e pre-aspromontani. La carne di maiale veniva utilizzata al 100% e rappresentava la autentica ricchezza delle famiglie contadine, da qui il detto antico: «Cu ‘mmazza u porcu è cuntentu tuttu l’annu, cu si marita è prejatu ‘nu jornu».
Cosa sono
Le frittole, secondo una consolidata tradizione, erano ben determinate parti del maiale, cucinate secondo rigide e tradizionali regole e tempi, da mangiare e condividere con parenti, amici e tutto il vicinato, una vera e propria festa, e l’invito era reciproco ed interscambiabile, a volte non era necessario neanche lo specifico invito e da qui il motto, quando si riceveva qualcosa in prestito: «Chisti sunnu frìttuli renduti».
Il tempo giusto
Per la macellazione si aspettava (era quasi obbligatorio e lo richiedeva tutto ciò che sto per descrivere) il freddo intenso che coincideva con le feste di natale e capodanno e poi tutto il mese di gennaio e anche fino ai primi di febbraio.
Ora non si tiene conto né di tempi e tradizioni, ognuno le può comprare dal macellaio ben sistemate in vassoi di carta stagnola e portarsele a casa e mangiarli in solitudine come un pasto qualsiasi.
E alla brace di legno di quercia o rovere si sostituisce, ahimè, il gas metano.
Ma, va da se, che non è la stessa cosa! Anzi è tutt’altra faccenda. A dire il vero, ancora questa tradizione rimane forte e irrinunciabile nelle masserie dei pastori e nelle case di molte famiglie di Reggio Calabria e provincia e soprattutto nella zona aspromontana e pre-aspromontana dello Jonio e del Tirreno.
La procedura
Il maiale, preferibilmente un suino nero calabrese, si scannava per mano di professionisti, i scannaturi, attesi, a turno, da ruga in ruga, usando un affilato coltellaccio e colpendo il maiale, di precisione, alla giugulare, per non farlo soffrire molto, e il sangue veniva raccolto in un grande secchio. In quanto anche il sangue veniva utilizzato preparandolo con profumate aromi e spezie di garonfalo e cannella e veniva fuori u sangunazzu (nella zona riggitana) o a pizza i sangu i porcu (nella zona jonica), piatto preferito soprattutto dai ragazzi.
Poi il maiale si appendeva ad una trave o ad un robusto ramo di quercia o di olivo con un gancio, a testa sotto, per liberarlo completamente dal sangue e dopo un certo tempo si stendeva su un grande tavolo di legno, diviso perfettamente in due parti uguali seguendo la linea della colonna vertebrale, e veniva sezionato da improvvisati ma esperti macellai che sembravano dei luminari medici-chirurghi… alle prese con una autopsia, tanto erano oculati nel tagliare le parti del corpo del maiale.
La carne magra veniva messa da parte e sistemata ‘nta maiglia (nella quale di solito si impastava la farina per fare il pane di casa), salata e speziata al punto giusto, e poi, soprattutto le donne, provvedevano a riempire i budeglia del maiale, dopo almeno due giorni di avvedute cure e lavaggi, e preparavano sarzizzi, supprazzati, capicogli, prosciutti, pancette, u salatu, u lardi e u buccularu che venivano appesi a delle travi , soprattutto nei locali usati per cucinare sul fuoco, e maturavano ed affumicavano assumendo un gusto ed un sapore veramente irresistibile e si mangiavano per tutta la primavera e l’estate.
Era proprio vero che dal maiale non si buttava assolutamente niente!
Il fuoco
Si accendeva prima delle luci dell’alba usando, per lo più, legna di quercia e si prendevano i brasi (la brace) creando un piccolo letto circolare rovente e sul quale si metteva u trippedi e sul quale si poggiava a cardara(ma molte volte a cardara si posava direttamente sulla brace) che intanto veniva riempita di carne di maiale rispettando scrupolosamente un preciso ordine; più sotto le parti del maiale più grosse e consistenti: il gambone, le costolette, la coda, i piedi, la cotenna con lardo (l’emblema delle frittole) ed anche le ossa più grandi con un po’ di magro attorno (che una volte ben cotte venivano scorticate con i denti); poi, più in alto, le parti più delicate e tenere: il muso, le orecchie, la lingua, il fegato, cuore, rognoni ecc. Il tutto doveva cuocere a fuoco lento alimentato solo dal calore della brace tra il minimo di otto ore e le dieci ore.
L’attesa
La cardara in tutte queste ore veniva guardata a vista e con attenzione dalfrittularu che con una lunga e grande cucchiara i lignu e forchettone tastava e seguiva costantemente l’evolversi della cottura dei vari pezzi di carne.
In queste lunghissime ore u frìttularu non veniva mai lasciato solo, gli stavano vicino tutti gli amici che in attesa delle frittole raccontavano avventure di ogni colore, circostanza e pericolo, molte volte azionando la fertile fantasia ed altri suonavano e ballavano ritmati da muttetti tradizionali.
Ma soprattutto si mangiava e si beveva. Nella brace ardente venivano arrostite le salsicce e grossi pezzi di lardo con cotenna, fino a che non presentavano il colore un po’ più scuro dell’oro, quasi ramato.
Che sapori e gusti particolari, indicibile delizia per le papille gustative!
L’abbuffata e la gioia di stare insieme
Quando ormai le ombre ed il fresco della tarda sera erano calate giù dalle vicine montagne e le frittoleerano ben cucinate e odoranti iniziava la vera festa.
Venivano tolte, con cura, dalla cardara, con il forchettone ed il lungo cucchiaio di legno (che presentava in mezzo alla parte concava un’incisione a forma di croce, perché la carne fosse prelevata asciutta, scolata dall’olio uscito dal grasso), e posizionate in capienti vassoi di creta – ceramica, variamente colorati ed ornate, chiamate limbe, e posizionate su grandi tavoli di legno imbanditi, e via a mangiare a più non posso, in generale allegria, con sovente bagno di buon vino locale e per contorno insalate di limoni ed arance per sgrassare la bocca e meglio digerire.
Ma ancora non era finita, si prendevano, con grandi cucchiai, sempre di legno, dal fondo della cardara i resti della carne sminuzzata dalla bollitura lenta e prolungata i curcuci (cicciole), i mucciunati, vera leccornia con le uova fritte, e a saimi, bianca come la neve, residui del grasso del maiale e si mettevano in dei vasi speciali di terracotta i cugnetti nei quali si conservava e si usava per condimento per quando l’inverno era ancora più rigido ed addirittura l’olio rimasto in fondo a cardara si utilizzava per fare u sapuni i casa.
Sembra una favola ma è nuda e pura realtà, anche se può mancare ancora qualche particolare che i lettori possono (con nostro piacere) segnalare.
Alla prossima puntata, aspettando i tempi giusti delle nostre tradizioni, le feste di natale e l’inverno, per come è stato scritto, ed avrò l’ispirazione giusta per raccontare una serie di piacevoli aneddoti in merito a colossali ed indimenticabili frittulati insieme a tantissimi amici e di come viene rappresentata, questa gustosissima, meravigliosa e sempre attesa tradizione, nella letteratura calabrese da scrittori ionico-aspromontani: da Francesco Perri a Corrado Alvaro; da Mario La Cava a Saverio Strati; da Totò Delfino a Pasquino Crupi e Gianni Carteri, ed in maniera più descrittiva, esauriente e piena di significati, in Anime Nere da Gioacchino Criaco .
Ma ora smetto di scrivere perché, nonostante tutto, mi si è aperto l’appetito che, purtroppo, non posso saziare adeguatamente… a base di frittole.