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Genialità e subordinazione: il “greco” di Bovalino

  •   Pino Macrì
Genialità e subordinazione: il “greco” di Bovalino

Quando il grande enologo Luigi Veronelli, nella celebre e molto seguita rubrica che tanti anni fa teneva su L’Espresso, recensì il Mantonico di Bianco, così ebbe ad esprimersi: «É un vino da bere in ginocchio, in adorazione».

Non penso ci sia qualcuno, nella Locride, che non conosca ed apprezzi le elevate vette di bontà attinte da questo vero e proprio “nettare degli dei” (a meno che non sia completamente astemio e refrattario a qualsiasi tipo di bevanda alcolica). Tutt’al più, è molto probabile che si accendano animate discussioni fra “mantonicisti” e “grecisti”, magari per il gusto tutto calabrese (a volte del tutto incomprensibile) di volere per forza stabilire una primazia fra due vere e proprie eccellenze, stavolta in campo enologico (e sempre a patto che non spunti qualche sostenitore del terzo partito, quello dell’Alicante…).

In molti sapranno anche che fino a non molto tempo addietro anche Gerace godeva di una certa rinomanza, grazie ad un suo “greco”, di cui ad oggi è rimasto forse soltanto il nome. E non solo il greco, di Gerace, era rinomato: il 26 ottobre 1746 un prelato di Catanzaro, tal Giuseppe Cicala, chiedeva al vescovo Del Tufo “un po’ di moscato di Gerace”, in margine ad un biglietto col quale gli rinnovava i sensi della propria deferenza.

Pochi, invece, sanno che la fattura di una così pregiata bevanda non era, in fondo, un’esclusiva della Città dello Sparviero o della “Terra del Bianco”, e che una non trascurabile produzione proprio di “greco” sia esistita anche a Bovalino. Una testimonianza in tal senso proviene da Daniele Spinola, filosofo e matematico genovese, appartenente ad un ramo cadetto della stessa celebre famiglia di mercanti e banchieri che, tra ‘500 e ‘600 (e anche oltre), impiantarono profondi e proficui interessi economico-commerciali in Calabria. Di lui, in particolare, è nota l’amicizia con Galileo Galilei, e, soprattutto, lo stretto rapporto con i galileiani di Sicilia, che gravitavano attorno al matematico ed astronomo Maurolico. Spinola, forse parente dei Del Negro (titolari del feudo dal 1650 al ‘77), e, quindi, arrivato a Bovalino al loro seguito, vi soggiornò per un certo periodo (forse due anni, tra il 1650 ed il 1652) per curare gli interessi della famiglia. Nell’epistolario intercorso fra Spinola ed i corrispondenti siciliani, pubblicato qualche anno fa dal prof. Moscheo, insigne storico dell’Università di Messina, vi sono diversi riferimenti al pregiato liquore: «Vi mando le due cantinette piene di greco, e ciascun di voi piglierà la sua» (lett. N. 3); «Il caso poi vi ha fatto delle sue col far venire il greco guasto, di che io non so penetrar la causa» (lett. N. 4); «Se venendo qua qualche felluca voi haveste cervello di rimandar qualche cantinetta, io haverei forse di empierlavi di greco che non fosse tristo: e vado pensando, che bisogna che io ficchi il naso a tutte le cose che voglio che camminino bene. Ma voi m’accennaste non so che, di mandar greco a non so chi, a cui per entrare in corpo vorrei diventar greco io […]» (lett. N. 5). Appena qualche anno dopo (1657), Giovanni Geronimo Del Negro, nuovo signore della Terra di Bovalino dopo Sigismondo Loffredo, nel denunciare le entrate feudali relative all’anno di morte del genitore, ci dà anche un’idea delle dimensioni della pregiata coltura («Vi erano in frutto 7 mila viti di nuovo impianto», il vino delle quali «si conserva nelle cantine del castello dove abita il Barone») e della relativa produzione («Vino dalle vigne, tra greco ed altri vini: melaini 32, che a carlini 20 lo melaino danno Ducati 12:04:00»).

Peraltro, che il centro jonico vantasse una buona tradizione vitivinicola, ce lo riferiscono, oltre al solito Barrio («Dein est Bovolina oppidum cum vino bonitate praecipuo» – 1571), anche altri studiosi moderni del settore («Nel 1400 si annoveravano vini assai considerati come il Santa Venerina, Santo Noveto, Bovolina, Bianco, Castrovillari, Fiumefreddo, ecc.» – B. Pastena, Trattato di viticoltura italiana, Bologna, 1991), mentre, più specificatamente, F. Melis dà conto di una non meglio identificata produzione di vino bianco a Bovalino addirittura nel Medioevo (I vini italiani nel Medioevo, Firenze, 1984). Appena un secolo dopo la signoria dei Del Negro, però, i dati del Catasto Onciario (1745, feudatari i Pescara di Diano) riferiscono di una coltura ancora, sì, ben radicata, ma del tutto frammentata in una serie di piccole vigne: su 341 ben 323 hanno un’estensione inferiore ad 1 ettaro (3 tuminate circa) e, di esse, in 190 sono inferiori ad una tuminata. Solo in tre casi si superano (di poco) i tre ettari, ed in tutt’e tre, in realtà, si tratta di colture miste (vigne e frutteti). Si tratta, cioè, di piccole vigne ad uso e consumo strettamente personali, e non più destinate a produzione e vendita esterne al nucleo famigliare.

Della superba vigna dei Del Negro, che probabilmente copriva una superficie non inferiore a 6 ettari, più nessuna traccia! La storia raccontata, si badi bene, non è e non vuole essere una delle tante, stucchevoli, operazioni di recupero nostalgico delle antiche glorie del paesello: tutt’altro! Sicuramente, infatti, dalle ricerche che gli storici locali hanno fatto e continuano a fare, emerge una intera Calabria sempre più ricca di potenzialità, che, però, la rapacità o l’inettitudine di tutta una serie di classi dirigenti, sia “estere” che locali, ha colpevolmente dissipato (si pensi alla grande tradizione della produzione della seta: in merito, CarlAntonio Pilati, un acuto statista trentino che visitò la Calabria nel 1775, annotò di come il governo borbonico, invece di incoraggiare quella produzione, caricava assurdamente di tasse l’intiera filiera, tanto da indurre i proprietari di terre a soppiantare via via ovunque la coltura del gelso con quella dell’ulivo) o soffocato sul nascere (accanto alle potenzialità vitivinicole, è bene ricordare come le camere di commercio francesi nei primi del Novecento assegnavano alla Calabria il secondo posto nella produzione olivicola), tanto da indurre uno storico calabrese a dire che «la Calabria ricevette verso la fine del Seicento una ferita gravissima, e da allora non è stata più in grado di riprendersi».

Parafrasando Giuseppe M. Galanti, l’integerrimo ispettore mandato dal re Borbone nel 1791 per prendere visione dello stato delle Calabrie, si potrebbe allora anche dire che «il popolo calabrese, per le angherie che è stato, ed è tuttora, costretto a sopportare, è, in fondo, meno facinoroso di quel che dovrebbe essere».


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