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  •   Salvino Nucera
Giochi e giocattoli nell’Aspromonte greco

Ai ragazzi di ogni parte del mondo il gioco giova quanto il cibo o l’acqua o, meglio ancora, come il latte della madre per il pargolo. Numerosi erano i giochi che i ragazzi, maschi, praticavano a Ghorìo nelle viuzze e nei campi.

Le ragazze non giocavano in ambienti esterni né da sole né insieme ai ragazzi maschi. Non si addiceva. All’interno delle abitazioni giocavano “a fare le donne e le mamme”; giocavano con gomitoli di stoffa, saltando sopra una corda tenuta alle estremità da due ragazze. Chi si attorcigliava con la corda veniva esclusa e lasciava il posto ad un’altra.

Un gioco usato dai ragazzi era quello del cerchio costituito dal ferro circolare che i ragazzi estraevano dai paioli e dalle piccole caldaie in disuso, bucherellate. Si giocava con un pezzo di ferro, lungo quanto la circonferenza del cerchio o adeguato all’altezza del ragazzo, che veniva piegato da un lato a mo’ di gancio e che era largo almeno quanto lo spessore del cerchio. Successivamente questo veniva piegato verso l’alto, in modo da far “sedere” all’interno il ferro del cerchio quando i ragazzi lo facevano rotolare velocemente sul terreno pianeggiante, accompagnato da quel pezzo di ferro chiamato “martellina”. Era un gioco individuale.

Un gioco in voga tra i ragazzi più piccoli era quello della spada col sorcio (lu pondìci). Era un pezzo di legno liscio, un bastone non più lungo di mezzo metro, ed un pezzo di legno più corto, 10-15 centimetri di lunghezza, lavorato alle estremità con un’accetta o un coltello per renderlo appuntito (lu pirùni). Si tracciava sulla terra un quadrato con il legno più lungo. I ragazzi giocavano due per volta, a squadre, o uno contro uno. Si faceva la conta e chi ne usciva vincitore acquisiva il diritto di iniziare il gioco con mazza e pondìci. Il giocatore entrava dentro l’area delimitata dal quadrato e, con la mazza in una mano ed il sorcio nell’altra, doveva colpire quest’ultimo per spedirlo il più lontano possibile. L’altro ragazzo doveva tentare, da dove era caduto il legnetto, di prenderlo e rilanciarlo con le mani dentro il quadrato, o il più vicino possibile ad esso. L’altro giocatore, in piedi, davanti al quadrato, sempre con la mazza in mano, doveva colpire, qualora gli fosse andato vicino, il legnetto, centrarlo e rispedirlo nuovamente molto lontano dal quadrato.

Qualora non lo avesse colpito, ed il sorcio fosse caduto dentro l’area del quadrato, avrebbe perso la mazza e avrebbe perso il gioco scambiandosi il ruolo con l’avversario. Se fosse caduto nelle vicinanze del quadrato si sarebbe dovuto misurare la distanza con la mazza; se questa, toccando il sorcio, avesse toccato anche la linea del quadrato, il gioco sarebbe cambiato. Se lo rimandava lontano, o se rimaneva vicino al quadrato ad una distanza superiore a quella della misura della mazza perché l’avversario non aveva saputo lanciare bene il sorcio, chi aveva in mano la mazza incominciava ripetendo delle strofe a voce alta: «Nentè, markè, iè, parentè!». Ad ogni espressione: un colpo a terra uno sul sorcio ed un eventuale colpo in aria. Alla fine di questa fase si interveniva o fermando il gioco per poter misurare la distanza con la mazza rispetto al quadrato, oppure si poteva farlo continuare.

Alla fine della misurazione se il numero di mazze utili per raggiungere l’area del quadrato fosse stata inferiore a ventiquattro il “mazziere” perdeva il gioco altrimenti si poteva continuare o stremo iniziare un nuovo gioco.


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