Il mugnaio: bianco di farina, calzoni arrotolati, cappello di pecora
- Bruno Palamara
Il mestiere del mugnaio è antico quasi quanto quello del contadino, avendo, insieme, accompagnato i passi di quell’elemento vitale, il pane, definito “il sostegno della vita”, “l’alimento principale”. Oggi andiamo tranquillamente al supermarket e dagli scaffali prendiamo con noncuranza pane o pacchi di farina di qualsiasi tipo e qualità, non pensando minimamente a quanta storia c’è dietro quel gesto che ci proietta indietro di alcune migliaia di anni, quando l’uomo da nomade, che si cibava di carne, è diventato stanziale, agricoltore e ha cominciato a nutrirsi di cereali, facendo nascere quell’arte molitoria che tanta rilevanza ha avuto nel corso della storia dell’uomo. Quella di macinare è un’arte antica, nata dalla necessità di rendere digeribili i cereali dopo averli ridotti in farina e cotti.
Nell’antico Israele macinare il grano era una normale attività domestica, svolta, in genere, dalla donna, che usava macine a mano, spesso lavorando in coppia. Macinare i cereali era così importante per la sopravvivenza delle famiglie che una legge biblica, riportata in Deuteronomio 24:6, prescriveva: “Nessuno deve prendere in pegno una macina a mano né la sua mola superiore, perché prende in pegno un’anima”. La stessa manna, il “cibo degli angeli”, fatta scendere da Dio in terra, affinché gli israeliti si cibassero durante il loro quarantennale cammino nel deserto, viene ridotta a farina con le macine, pestata nel mortaio (Numeri, 8).
La storia
Presso gli antichi Egizi, la frantumazione dei cereali era affidata alle schiave che utilizzavano un procedimento molto elementare, la cosiddetta “macina a sella”, uno degli strumenti molitori più primitivi, costituita da una pietra abbastanza larga, spaziosa, detta “levigatoio” (parte inferiore fissa), e una pietra più piccola, chiamata “macinello” (parte superiore mobile). Chi utilizzava questa macina, di solito una donna, si inginocchiava, afferrava la pietra superiore con entrambe le mani e, appoggiandovisi con tutto il peso, la spostava avanti e indietro sulla pietra inferiore in modo da triturare il grano fra le due pietre. Un metodo semplice, efficace, tuttavia massacrante, dovendo restare in ginocchio per ore. Nel bacino del mar Mediterraneo si diffuse verso il II secolo a.C. il mulino rotatorio, una “macina rotatoria manuale” (mola manualis o versatilis), portatile e maneggevole, oltre che economica, costituita da due elementi circolari sovrapposti (palmenti). La parte inferiore, chiamata “meta”, di forma troncoconica, spesso con scanalature, era fissa, dotata di un perno centrale per l’inserimento di un elemento superiore mobile, detto catillus, di forma cilindrica. Al centro un foro permetteva il passaggio dei cereali, mentre in un foro laterale era inserita una maniglia di legno per l’azionamento manuale.
Come funzionava? Di solito, due donne sedevano una di fronte all’altra ed entrambe con una mano impugnavano il manico per far girare la mola superiore. Con la mano libera una donna versava un po’ alla volta il grano nell’apposito foro, mentre l’altra donna raccoglieva la farina via via che usciva dal bordo della macina e cadeva su un vassoio o un telo steso sotto.
Quelli che, però, s’imposero e hanno avuto una storia millenaria, furono il mulino ad acqua, chiamato anche mulino idraulico, e il mulino a vento, soppiantati solo nel XVIII secolo, e lentamente dall’avvento del motore a vapore prima e dal motore elettrico poi. L’idea di imbrigliare la forza dell’acqua, per azionare macchinari ed utensili, risale ai Sumeri che, a dispetto del nome, significa “abitanti di Sumer”, parola composta che significa “luogo dei signori civilizzati”, la prima popolazione sedentaria al mondo che abitava nella Mesopotamia meridionale, l’odierno Iraq, tra i fiumi Tigri ed Eufrate. Anche la tecnica costruttiva dei mulini (sia ad acqua che a vento) è stata per molti secoli prerogativa delle civiltà mesopotamiche. Solo successivamente essa si ampliò in Egitto, in Cina e, molto più tardi ancora, in Occidente nel mondo greco-romano a partire dal I secolo a.C..
Il mulino ad acqua
La prima e più antica menzione di un mulino ad acqua è dovuta al celebre geografo Strabone di Amasia (60-21 a.C.), il quale nella sua opera principale, Geografia, parla del mulino fatto costruire nel 65 a.C. da Mitridate a Cabira, nel Ponto, come corredo indispensabile del suo nuovo palazzo. Tra i primi documenti riguardanti i mulini ed il loro funzionamento vi sono quelli di Marco Vitruvio, architetto e scrittore romano vissuto nella seconda metà del I secolo a.C., che nel suo trattato De architectura (25 a.C.) descrisse il mulino ad acqua a ruota verticale che rendeva molto di più degli altri tipi di mulino in vigore a quell’epoca a ruota orizzontale, tanto che esso fu chiamato proprio mulino vitruviano.
Da questo momento in poi il mulino idraulico si diffuse dovunque, toccando l’apice nei secoli centrali del Medioevo, quando si ebbe la costruzione di un mulino “per ogni castello che disponesse di un ruscello”.
Nel mulino idraulico parte dell’acqua di un torrente viene deviata contro una ruota con delle pale, sulle quali essa applica una forza che le porta a muoversi intorno ad un asse che muove a sua volta una grande ruota di pietra che funziona da macina. L’utilizzo dell’energia idraulica al posto di quella animale o umana permise un aumento della produttività senza precedenti, perché consentiva di poter macinare più di 150 chilogrammi di grano in un’ora, equivalente al lavoro di 40 schiavi, fatto straordinario se si pensa che quelle più efficienti del passato azionate da animali raggiungevano al massimo 50 chili.
Il mulino a vento funzionava esattamente come un mulino ad acqua, l’unica differenza era nella ruota a pale che è molto più grande e strutturata per essere mossa non dal flusso dell’acqua, ma dall’aria.
Il mulino a vento
I mulini a vento hanno origine persiana. I primi esemplari vennero costruiti nel VII secolo d.C. nei territori che oggi appartengono all'attuale Iran ed erano dotati di pale di stuoia intrecciate che, spinte dal vento, mettevano in moto una ruota alla quale queste erano fissate. La diffusione del mulino a vento, al contrario di quella del mulino ad acqua, fu abbastanza lenta; solo con l’espansione dei regni islamici l’uso del mulino a vento raggiunse l’Occidente mediterraneo e Sicilia, Baleari, Spagna, isole greche furono i territori che per primi videro sorgere questi manufatti. In effetti, era molto più complessa la costruzione dei mulini a vento rispetto ai mulini idraulici, poiché dovevano necessariamente essere edificati in aree per natura molto ventose.
Furono resi famosi dalla penna dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes con il romanzo Don Chisciotte della Mancia (1605), uno dei capolavori della letteratura mondiale di ogni tempo, in cui il protagonista combatte proprio contro i mulini a vento. In tutto l’Occidente medievale il mulino divenne, ben presto, da semplice macchina per la trasformazione di beni primari, un simbolo di potere. I liberi comuni e le signorie capirono le potenzialità economiche (e quindi il potere) derivanti dal controllo dell’attività dei mulini e la posero sotto il controllo dell’autorità statale, assoggettandola in alcuni periodi storici, perfino, a tassazione, ricavando ampi profitti attraverso la cosiddetta “tassa sul macinato”.
Il mugnaio
I mulini ad acqua per tanti secoli hanno caratterizzato e segnato capillarmente il territorio, svolgendo un ruolo importante e portando alla formazione di una vera e propria categoria professionale, i mugnai, la cui corporazione compare per la prima volta a Roma in un’iscrizione del 448. In effetti attorno al mulino ruotava la vita dell’uomo, divenendo col tempo un centro vitale, un luogo d’incontro e di rapporti sociali con gente che andava e veniva in continuazione. Bisogna tener conto che con il termine “mulino” (parola proveniente dal latino molinum, da cui “mola”, “macina”) normalmente s’intendeva non solo la macina, bensì l’intero impianto di macinazione. Il mugnaio, o nei nostri paesi chiamato ‘u mulinaru, divenne una figura piuttosto familiare nel quadro della vita quotidiana del tempo, come il taverniere, il macellaio, il bottegaio.
Era una figura intermedia tra il popolo e i padroni, tra coloro, cioè, che producevano (i contadini), e quelli che consumavano. Un vero esperto di due mondi, dunque: quello contadino, di cui conosceva i bisogni, il modo di lavorare, i prodotti; e quello dei possidenti, con i quali trattava, se non da pari, senza l’ossequio servile dei lavoratori della terra.
In ogni caso il mugnaio era considerato un individuo privilegiato: l’attività che svolgeva gli garantiva un buon guadagno e poi anche nei periodi in cui la popolazione soffriva la fame egli era quello che, anche solo con i residui della lavorazione, aveva assicurato il “pane” per la propria famiglia. Per questo era considerato un “buon partito”.
Figura inconfondibile, il mugnaio era sempre bianco di farina con i tipici calzoni bianchi arrotolati, il berretto orlato di pelle di pecora e le ciabatte. Il suo lavoro richiedeva notevole forza fisica: basta pensare a tutti i sacchi di farina che doveva sollevare e trasportare durante la sua vita! Era un lavoro duro, praticato spesso notte e giorno in un ambiente freddo e umido: d’inverno lavorava molto, d’estate era spesso costretto ad interrompere il lavoro per mesi per mancanza d’acqua. Il giudizio che nei secoli è passato nei confronti di questo lavoratore è vario e complesso, ma nella maggior parte dei casi si tendeva a metterlo in cattiva luce, consolidando l’immagine del mulinaru furbo, ladro e imbroglione. Forse per questo gli Statuti medievali, che ne regolamentavano l’attività, prevedevano multe severe in caso di frode.
All’arrivo del cliente si provvedeva alla pesatura dei sacchi; se questi non disponeva di denaro, il pagamento avveniva in natura: il mugnaio tratteneva così la molenda, ovvero una parte del macinato. Venivano macinati tutti i tipi di cereali dal grano al mais, all’avena, all’orzo, prodotti di cui si faceva uso anche per gli animali. Il mugnaio doveva avere anche altre capacità, dovendo essere all’occorrenza meccanico, fabbro o falegname, per poter aguzzare le macine, riparare gli ingranaggi e ovviare a tutti gli imprevisti che avvenivano all’interno del mulino.
L’arrivo della modernità
La storia di questo mestiere si lega indissolubilmente alla tradizione e alla cultura popolare, tanto che il mugnaio è stato oggetto di canti popolari e di aneddoti, oltre che di proverbi e, persino, di cognomi quali Molino o Molinari in Italia, Miller in inglese, Müller in tedesco, Molinero in spagnolo, dimostrando la capillare diffusione del mestiere in ogni angolo di mondo. Con il passar del tempo il mestiere del mugnaio tradizionale è andato un po’ alla volta scomparendo, anche perché tra la prima e la seconda guerra mondiale nasceva il mulino elettrico, che lo ha trasformato completamente. Le macine sono state sostituite da moderni laminatoi con cilindri d’acciaio e ai meccanismi mossi dall’acqua sono subentrati i motori elettrici, che sicuramente producono di più e in tempi più rapidi, ma hanno cancellato l’incantevole fascino e la rustica atmosfera dei vecchi mulini di una volta, quando sentivi lo sciabordio dell’acqua che faceva girare la grande ruota di pietra o il cigolio e il rumore ritmico delle ruote dentate. Attualmente la farina è prodotta in mulini a cilindri meccanizzati e completamente automatizzati. I chicchi di grano vengono gradatamente trasformati in farina attraverso successivi passaggi tra coppie di cilindri di acciaio che ruotano a velocità diverse.
Questo sistema, è vero, permette di lavorare maggiori quantità di grano, ma porta con sé ha il difetto di impoverire le farine di vitamine e proteine a causa dell’eccessivo grado di raffinazione e del surriscaldamento dovuto all’alta velocità di macinazione. La macinazione a pietra, al contrario, con la sua lavorazione lenta e graduale, permetteva di conservare tutte le proprietà nutritive dei chicchi senza perdere le vitamine, le proteine o i sali minerali in essi contenuti. E il pane con quella farina emanava, un tempo, dolcezza e bontà che noi oggi, moderni, possiamo solo immaginare.