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Il racconto. Trecce d'argento

  •   Antonella Italiano
Nella foto Barbara Lucifero (Monasterace Superiore, RC). Foto Bruno Criaco Nella foto Barbara Lucifero (Monasterace Superiore, RC). Foto Bruno Criaco

Guardai il cielo quella mattina, fu come fare un salto e scappare. Lassù era tutto d’argento, le nuvole, le montagne, gli uccelli infreddoliti e leggeri. Da trent’anni quel cielo era sempre uguale, da quando col dito disegnavo sulle finestre fiori di cinque petali e una foglia e bimbe dai capelli lunghi. Sentii l’odore di casa, quello che mi mancava fino alle lacrime quando imbruniva ed ero ancora dai nonni. E che mi soffocava fino a farmi sfuriare, nelle lunghe giornate d’inverno.

«Potete entrare», e la voce del medico mi riportò in sala d’attesa. Entrai, e fui investita dall’argento di carrelli e lettini. Per non guardare oltre focalizzai l’attenzione sulle luci che correvano lungo i tubi d’acciaio. Mi parse più bello quel mondo riflesso, distorto dalle curve delle traverse. Là i colori si mischiavano, e con loro le facce, le storie, persino le rughe. Era un mondo senza tempo, finalmente.

La signora stava composta, seduta al centro del letto, con su le gambe una coperta color cammello. «Papà» ti dissi «non ti ricorda nessuno?». Tu la guardasti. Sono sicura che ti parse un angelo, con quel suo volto fiero e il sorriso cordiale, e le mani conserte sul grembo e le sue trecce d’argento. Da quanti anni quelle trecce erano sempre uguali? Da quando eri bambino, certo, e correvi scalzo per le vie del borgo, e l’argento l’avevi visto solo tra i capelli di tua madre, divisi in due lunghe ciocche poi intrecciate, e raccolte sulla nuca con spilloni e retine. O sui capelli delle zie, dove la treccia era unica e si appuntava sulla testa quasi fosse una corona. E ti sarà parso strano che le donne di quei tempi vendessero le loro lunghe trecce per qualche centesimo, chi acquistava i capelli? che importanza potevano avere? Lo capisti solo quando iniziasti a perderne. Ma accadde molto, molto tempo dopo.

«Signora mi ricorda mia nonna». L’angelo sorrise. «Però è un po’ disordinata, dovrebbe rifare quelle trecce», dissi per giustificare la mia insistenza nel fissarla. Quando tornai, la sera dopo, le trecce erano nascoste da un colorato fazzoletto, portato come le donne calabresi di un tempo. Ed ogni giorno il fazzoletto era diverso, perché fosse sempre fresco e pulito. L’argento si intuiva, ora, dalle rughe sul viso. Quando fu il momento di andare l’angelo resto lì al centro del letto, con la sua coperta color cammello, e il suo fare dignitoso. E il cielo tornò azzurro, e il tempo si staccò dalla traverse d’acciaio per tornare libero di scorrere. Per riportarci a casa.


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