L’editoriale. Il ballo del castello
- Gioacchino Criaco
Bum, bum, bum.. Partiva col botto il Natale nelle rughe, quando la luce del giorno iniziava a vincere la sua guerra perenne sulle tenebre, e passo passo si conquistava i primi attimi in più.
A Santa Lucia i ragazzi piazzavano i petardi fra i carboni di leccio dentro i bracieri, messi fuori a cucinare il calore per la sera. I tizzoni saltavano in aria fra nuvolette nere colme di lucine gialle e rosse. Le donne uscivano sui balconi e nei ballatoi del pianoterra, mandavano maledizioni ai monelli e si chinavano pazienti a raccogliere la carbonella superstite. Dalle porte aperte scappava fuori il profumo delle sarde fritte imprigionate nelle zeppole e per le vie si levavano i vapori odorosi delle frittole che andavano per regalo di casa in casa dentro contenitori di plastica che si svuotavano di grassi per riempirsi di pretali che li avrebbero accompagnati nel viaggio di ritorno.
A Natale era bello essere bambini, lo si era da zero a dodici anni e quasi tutto era permesso, uscite libere fino a tarda ora con l’apoteosi del rientro a piacere quando arrivavano le novene e si accendevano i fuochi in piazza che diventavano cenere solo col sorgere del sole. Giochi e giochi, all’infinito, sino allo stremo delle forze. Ma il gioco dei giochi, per noi bambini, era uno: il ballo del castello.
Il fruttivendolo contava sul banco una a una le nocciole, quasi fossero pepite d’oro. Venti per cento lire. Tre per base e una a sormontare un piccolo castello, che si addossava a un muro. Un fortilizio da abbattere col ballo, una nocciola più grande e pesante delle altre. A ogni abbattimento, il castello passava di mano al distruttore che a fine gioco si riempiva la pancia a spese degli sconfitti. Squadre di quattro con un campione scelto per tirare. Per anni eravamo stati i campioni assoluti, fino a quando fummo esclusi per manifesta superiorità.
Per due anni restammo a guardare, sconsolati. Tino, il nostro campione era troppo forte, aveva i numeri nella testa, vinceva la conta d’inizio gioco e tirava per primo e ogni colpo era un maglio distruttivo. Giù nocciole a valanga per riempire il nostro sacco.
Rientrammo in gioco dopo due anni di stop. Tino era mancino, e la mattina di Santa Lucia uscì di casa col braccio sinistro appeso al collo, slogato da una caduta dal letto durante il sonno. Tutti ci canzonarono e ci proposero di giocare. Stringemmo al petto i nostri sacchetti, con terrore, quando Tino accettò la sfida per tutta la squadra. Addio nocciole, imprecammo in testa.
Il gioco partì male, oltre al braccio, al nostro campione, non gli funzionavano i numeri. Perse la conta e tirò quasi sempre per ultimo. Sbagliò ogni colpo e arrivammo ad avere a disposizione l’ultimo castello per la gara. Andai a costruirlo io, accompagnando le quattro nocciole come a un funerale. Tino aprì uno e vinse la conta. Tirò per primo, senza quasi mirare. Quattro castelli crollarono insieme. Corsi veloce a infilarle nel sacchetto. Tino vinse la conta successiva. I numeri gli tornarono in testa e la mira di un tempo passò dalla sinistra alla destra.
Depredammo tutti, i castelli passarono nei nostri sacchetti e prima di andare a dormire ci finirono in pancia. Fu allora che Tino ci svelò il trucco. Tolse il braccio dal fazzoletto che lo legava al collo, e che non si era mai slogato. Per due anni, di nascosto anche da noi, aveva allenato il braccio destro, facendolo diventare bravo quanto quello sinistro. E anche se adesso ci avrebbero nuovamente escluso dal gioco, per il Natale successivo il cervello di Tino lo avrebbe trovato un altro trucco.