L’italiano dialettizzato e i poeti poliglotti
- Bruno Salvatore Lucisano
di Bruno Salvatore Lucisano - Il fatto è che non si tratta più, come spesso accade, di dialetto italianizzato, bensì di italiano dialettizzato. Molti di quanti scrivono in dialetto (poeti e poetastri, autori teatrali, barzellettieri in versi dialettali, ecc.) credono che basti aggiungere una “u” o una “i” finale ad un termine in italiano per produrre una parola in dialetto. Non è così. Potrei fare esempi infiniti di vocaboli sconosciuti al dialetto, dialettizzati. Anche chi scrive ovviamente, non è immune da questi errori marchiani.
Ma così come tutte le lingue anche i dialetti perdono o trovano nuovi vocaboli.
Il merito di chi scrive il dialetto è quello di mantenere viva la lingua dei padri, meglio se dei bisnonni. Il caro amico Pasqualino Favasuli, non vi tradurrà mai resilienza in dialetto, questo rischio lo corre, invece, Gianni Favasuli che, essendo laureato potrebbe utilizzare la “trasformazione”, anche se no lo farà mai!
I soggetti a maggior rischio sono quelli che scrivono poesie in italiano e in dialetto, perché mentre per il dialetto tutto diventa “semplice”, per l’italiano è più complicato. Un errore in dialetto che è lingua popolare…passa; in lingua italiana resta come una cicatrice. Per fare un esempio chiaro e lampante: l’amico Franco Blefari scrive mille volte meglio la poesia dialettale che non quella in lingua. La ragione è semplicissima: è un uomo del popolo e conosce meglio la lingua dialettale. Quando si alza la mattina pensa in dialetto. Conosce usi e costumi. Detti e proverbi. Modi di dire. È, insomma, una enciclopedia dialettale vivente.
Comunque, in qualunque modo si scriva la poesia, e qualunque sia la lingua, resterà solamente quella che è poesia. E non è tutta poesia quella che chiamiamo poesia.
Roma, 3 novembre 2017