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La canna, un acciaio vegetale

  •   Mimmo Catanzariti
Nella foto una parete divisoria di canne, realizzata in un’abitazione di Campusa (Africo Antica). Foto di Francesco Depretis Nella foto una parete divisoria di canne, realizzata in un’abitazione di Campusa (Africo Antica). Foto di Francesco Depretis

Costeggiando il litorale marino, o salendo per le stradine ai bordi delle nostre fiumare, o ai margini dei campi coltivati, quasi a delimitarne il confine, o a protezione delle colture a mo’ di frangivento, si trovano i canneti. La canna comune (Arundo donax) o canna domestica è una pianta erbacea perenne, con foglie lunghe e strette. Il suo fusto, flessibile e resistente, contiene silice e forse questa è la principale ragione per la sua resistenza e durabilità. Si prestava, fino a non molto tempo addietro, alla lavorazione per ottenere svariati oggetti e utensili di uso agricolo, pastorale, domestico, artigianale e ludico.

LA CANNA VIENE raccolta recidendola alla base e il periodo migliore è quello invernale, quando il ciclo vegetativo è fermo. I vecchi panarari esperti consigliavano di raccoglierla con la luna calante, per evitare che si tarlasse, e indicavano febbraio come il momento migliore. Le canne buone per l’intreccio sono quelle che hanno almeno un anno, risultano infatti più legnose e più forti. I fusti duri trovano impiego come supporto per piante rampicanti, come la vite (canni pe ‘mpalari), i pomodori, i fagioli e come tutori nella crescita delle piante giovani. Nel settore artigianale, con la canna, si fabbricavano una serie di oggetti, frutto dell’arte dell’intreccio: le fasceddhe per la ricotta, realizzate con listelli di canna, attorno a una base circolare di legno di olivastro, i panara, i cofini per il trasporto a spalla di materiali pesanti, per vendemmiare e per le olive, il cannizzuche serviva (ed è ancora utilizzato) per essiccare fichi e pomodori, il matassaru per raccogliere il filato di lana o di lino, i cannola, una specie di ditali che usavano i contadini per proteggere le dita durante la mietitura.

LA ‘NCANNICCIATA si costruiva nel seguente modo: si posavano per traverso fasci di canne, ripulite delle foglie e tagliate a misura, e venivano legate fra loro con spago o fil di ferro. Su questa intelaiatura si stendeva uno strato di calce e, oltre a servire da parete divisoria, si usava anche come base dove si poggiavano le tegole per il tetto. La canna veniva utilizzata nelle più svariate applicazioni della vita di tutti i giorni: si costruivano canne da pesca, bastoni da passeggio, pennini per scrivere, addirittura anticamente le arnie per le api avevano una forma arcaica e venivano costruite con la canna, la si usava anche per impagliare damigiane, bottiglie e bottiglioni. Erano pregiati i fichi secchi imbottiti con mandorle, noci e scorza di limone o di cedro, che venivano venduti infilati in un listello di canna ricurvo, o in altre composizioni geometriche su impalcature di canna anche esse.

QUESTO ANTICO mestiere oggi è quasi scomparso, perché non è più in grado di competere con la funzionalità e la praticità dei contenitori di uso comune, completamente diversi nella forma e nella materia. Quando vediamo una cesta o unpanaru, ci vengono subito in mente le atmosfere perdute. L’uso della plastica ha escluso questa pianta quasi del tutto dalla vita quotidiana. La canna è stata utilizzata anche nella medicina popolare, infatti tagliando trasversalmente una canna all’altezza dei nodi, vi si trova una leggera membrana bianca (velu), che in caso di necessità, si può usare per fare coagulare il sangue (stagnari ‘u sangu) appoggiandola sulla ferita.

LA CANNA, COME recita questo antico strambottu, è stata usata anche come una unità di misura per stoffe, tele, pietre, legname, e si utilizzava prevalentemente nel sud Italia. Misurava comunemente da 8 a 10 palmi, equivalenti da 2 metri fino a 2,15 ed era l’unità di misura più usata; il suo sottomultiplo era la “mezza canna”. Il materiale che costituisce il fusto è molto flessibile e abbastanza resistente, ed è considerato come il migliore per il confezionamento di ance di strumenti musicali a fiato come oboe, fagotto, clarinetto e sassofono. Le canne provenienti dalla Provenza sono celebri per il loro impiego nella produzione di ance. In questi strumenti, la vibrazione è provocata da una lamella elastica di canna o di metallo, fissata ad una estremità sopra un foro rettangolare delle sue stesse dimensioni, nel quale viene spinta l’aria. La lamella vibra, bloccando periodicamente il flusso dell’aria generando così il suono. Ogni ancia può emettere una sola nota che dipende dalle sue dimensioni. I culmi di Arundo donaxvengono inoltre impiegati per realizzare le canne di molti tipi di cornamuse. La canna domestica è stata usata per oltre 5000 anni nella produzione di strumenti a fiato; uno dei più famosi era l’Aulos della Grecia antica. Era costituito da un tubo di canna lungo fino a 40 cm con fori variabili da 5 a 8, spesso anche doppio, cioè formato da due tubi spesso dritti e uguali, ed è lo strumento a fiato che per primo è stato rappresentato nelle ceramiche greche.

I FRISCHJOTTI e il flauto di Pan formato da 10 o più canne di diverse dimensioni legate o incollate fra loro, e infine le launeddas della Sardegna, ne sono gli eredi diretti. Notizie che ho avuto da un musicista e costruttore di questi strumenti, Mimmo Morello di Palizzi Superiore, vero depositario e archivista dei suoni e del repertorio tradizionale calabrese. La canna è presente anche nelle manifestazioni religiose in Calabria, infatti a Bova, la Chora dei grecanici, la domenica delle Palme, si tramanda il mito di Persefone che si perpetua attraverso la costruzione di figure femminili vestite d’ulivo su una struttura di canna. Le Pupazze sono addobbate con fiori e frutta di stagione, con i prodotti che la natura offre al suo risveglio, portate in processione e benedette, poi smembrate e distribuite ai partecipanti. Il mestiere del panararu, va pian piano scomparendo, e quelli che lavorano la canna sono rimasti ormai davvero in pochi.

QUEST’ARTE ANTICA oggi sopravvive solo per finalità folkloristiche, e molti dei prodotti spesso fanno bella mostra nei salotti moderni o nei locali alla moda, banalizzando una delle espressioni più belle del nostro pregevole artigianato. Professioni che meriterebbero un’adeguata valorizzazione e un’attenta politica d’inserimento di giovani artigiani. Una scommessa sul possibile recupero degli antichi saperi, anche in termini produttivi e occupazionali, che può essere una speranza per questo mondo rurale e artigiano. Un mondo che ancora resiste alla globalizzazione e che conserva quanto più possibile del nostro passato.


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