To Cippitinnàu. La risposta attesa
- Francesco Violi
L’immenso patrimonio culturale della Calabria greca, oltre al ricco bagaglio storico e linguistico, vanta tradizioni popolari uniche al mondo. Esse non solo rappresentano lo strumento di ostacolo alla completa latinizzazione dell’area ma servono ad identificare un popolo che, altrimenti, si sarebbe già omologato agli standard consumistici dell’Occidente. Se canto, ballo, gastronomia e artigianato resistono, trovando sempre più spazio anche tra le nuove generazioni, purtroppo lo stesso non si può dire per quei rituali che caratterizzavano la vita di tutti i giorni.
IN PARTICOLARE il fidanzamento, che viveva di momenti e di simboli attorno ai quali si muoveva la suggestione, la romanticità e il mistero dell’evento. Fulcro e oggetto di questi rituali era to cippitinnàu, ossia un piccolo pezzo di legno, leggermente bruciacchiato, al quale era affidata simbolicamente la speranza e la volontà di iniziare una nuova vita familiare. Il ceppo non doveva essere completamente bruciato poiché esso rappresentava il ciclo vitale. L’uomo che voleva fidanzarsi doveva, attraverso terze persone, far sapere alla famiglia della futura fidanzata la sua intenzione a convolare a nozze. Ma il responso lo avrebbe avuto tramite il rito del cippitinnàu.
UNA VOLTA espressa questa volontà, quindi, egli, prima della notte, lasciava davanti l’uscio di casa della ragazza u cippitinnàu. I genitori della pretendente sposa prendevano atto della richiesta formale: se la risposta fosse stata negativa, il padre avrebbe fatto rotolare il legno lungo la strada che conduceva alla casa del ragazzo; diversamente, se avessero consentito l’unione, avrebbero ritirato il ceppo e all’indomani il padre della ragazza lo avrebbe consegnato al futuro genero.
IN OGNI CASO, tra i due uomini, avveniva un dialogo generalmente musicato e cantato*:
padre: «Pis’efere ton gìppo ti dichatèramu?» (Chi ha portato il ceppo a mia figlia?)
ragazzo: «Ton èfera egò!» (L’ho portato io!)
padre (in caso di “no”): «Ghìre, ghìre apìssu ti den ène ja ‘ssèna to cippitinnàu!» (Gira, gira dietro perché non fa per te questo fidanzamento!)
padre (in caso di “si”): «I dichatèramu ène kalì ncippettemmèni!» (Mia figlia è ben fidanzata!).
Si concludeva in questo modo un rito suggestivo, caratteristico di un mondo lontano, dove speranza e sentimento si facevano rappresentare da un ceppo. Un mondo ed un tempo ai quali la Calabria greca guarda ancora con nostalgia poiché sa che sono questi i veri tesori da custodire.
*La formula è di Angelo Maesano e musicata da Filippo Violi – Tradizione popolari Greco-Calabre di Filippo Violi, ed. Apodiazzi 2001.
Storie d’autore. U passu da zita - di Gianfranco Marino
Appena 54 pagine, la cui costruzione semplice ed essenziale è un invito alla lettura che regala uno spaccato interessante della realtà agro-pastorale aspromontana della prima metà del secolo scorso, attraverso la ricostruzione di ambientazioni umane, scenari naturali, condizioni familiari, interazioni sociali, usi e costumi di una Africo ancestrale, antica, dura, a cavallo delle due guerre.
Il ceppo tocca questioni lontane, figlie di un Mondo ormai quasi dimenticato, ma forse non da tutti, un Mondo ancora vivo nei ricordi di molti, tra rimpianti, sofferenza, nostalgia, voglia di affetto e sentimenti sempre contrastanti.
Il lavoro di Gligora, tra i tanti “africoti” oggi prestato alle nebbie piemontesi, suggerisce la validità del filone riservato ai racconti brevi della nostra terra, fuori dai grandi schemi, all’insegna della semplicità metrica e di contenuti, insomma un genere che può, accanto alle letture di più alto livello, rappresentare un valore aggiunto, pedagogico, storico ed educativo se rivolto alle nuove generazioni di giovani che vogliono riscoprire la storia, la propria e quella di chi gli sta accanto, per vivere consapevolmente un futuro che marcia sempre più spedito verso l’omologazione.
È semplice e, proprio per questo, bello il lavoro di Gligora, con quel finale che da solo sembra racchiudere il senso stesso del racconto e la malinconia di chi la sua personale storia, pur tra nebbie, poco aspromontane, la porta sempre e comunque nell’animo.