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Tradizioni. Il “musulucu” dello zio Ferdinando

  •   Mimmo Musolino
Tradizioni. Il “musulucu” dello zio Ferdinando

«….Mimmicegliu apri le mani che ti faccio mangiare nu pugnu i Musulucu caldo, inzuppato di siero come esce “da cardara”.»

La caldaia era situata su un enorme tripòde sotto il quale ardeva “mugugnando” e facendo faville un fuoco alimentato da legna di quercia e “i brasi” ordinate con cura da mia zia Teresina con un rudimentale  attizzatoio. A rivolgermi tale invito era mio zioFrandinandu, fratello di mia mamma Rosina. Io aprivo le mani come congiunte in preghiera, come ai tempi di oggi si fa per prendere l’ostia consacrata dalle mani del celebrante la Santa Messa, senza il pericolo di morbose contaminazioni, e mio zio mi poneva fra le mani un pugno fumante di Musulucu che io mangiavo con avidità in breve tempo, sfidando il bruciore che mi causava alla lingua e mettendo a duro rischio le mie papille gustative,  per poi riprendere la posizione, quasi implorante, delle mani giunte nella speranza di un bis.

Questo ricordo mi assaliva ogni mattina, quando era ancora buio, ed eravamo già in auto con il collega dottore Agronomo Antonio Minicuci, esperto zootecnico ed in particolare nelle tecniche di lavorazione del latte. Bisognava rispettare gli orari dei pastori che a quel tempo iniziavano a lavorare il latte che era ancora notte per fare le ricotte (col siero ancora caldo) ed il formaggio in modo da essere davanti ai mercati e ai negozi, dei paesi e delle città, ancora prima della loro  apertura, questione di concorrenza. Quasi sempre ci si trovava in condizioni ambientali pessime in quanto pioveva e fuori dai caseifici (?) artigianali, ma molte volte erano dei veri e propri tuguri, non si poteva stare fuori, e dentro nemmeno, in quanto si perdeva la vista, per il bruciore degli occhi, a causa del fumo che usciva dal  “focularu” sul quale c’era  u trippèdi e sopra di esso a “cardara cu u latti chi bugghiva”. Però era d’obbligo seguire le fasi della lavorazione secondo le usanze della zona  e poi consigliare le opportune tecniche moderne per cercare di migliore in quantità e qualità la produzione lattiero – casearia. Tutto questo in quanto bisognava dare attuazione ad un progetto dell’Agenzia Regionale di Sviluppo e Servizi in Agricoltura (ARSSA)  che riguardava lariscoperta delle tradizioni calabresi concernenti la lavorazione  del latte.

Tutte le mattine, o quasi, nel periodo di massima produzione del latte, in inverno, partivamo alla ricerca di mandrie di bovini, capre e pecore mentre ancora erano ‘nto jazzu o zaccanu o in  stalle, utilizzate alla bisogna, presso vari pastori, come ad esempio le aziende agro-zootecniche di Angelo Pangallo – e gnura “Ciccia” Francesca Romeo,  a Ghorio di Roccaforte; Zumbo – Paola Iaria a San Pantaleone; Carmelo Manti  – Immacolata  Casile a San Lorenzo; ‘Ntoni Sgrò – Mariangela Minniti  a “Petra”di Condofuri, i Priolo e i Trunfio a Brancaleone; i Morabito e Leo Criaco ad Africo, gli Scrivo-Mollica a Motticella di Bruzzano Zeffirio ai piedi dello Scapparruni ecc.ecc.

Poi ci inoltravamo verso la sacra montagna d’Aspromonte, in onore della Madonna di Polsi o della Montagna “a Madonna i Porzi o da Muntagna”: a  San Luca, Natile di Careri e Platì. Nei campi di Cardeto, Sant’Eufemia e Santo Stefano d’Aspromonte, Delianuova e Scido con i confini dei terreni comunali a cuneo nel cuore dell’Aspromonte nei quali i pastori, durante l’estate attuavano una transumanza all’incontrario  per sfuggire alla opprimente ed insopportabile afa, all’arsura e ai prati brulli e secchi della marina, portavano le mandrie ai verdi pascoli e alle fresche acque dei ruscelli e delle fiumare d’Aspromonte.

Una di quelle mattine umide, piovigginose e con i primi raggi del sole che sembravano giocare a nascondino con la nebbia e che tentavano di perforare, prepotentemente, il cielo plumbeo mentre faceva l’alba; con le scarpe sporche di sterco di pecore e di capre (i cacaroccioli) e gli occhi lacrimanti per il fumo proveniente dal fuoco da sotto la caldaia (chi ci avrebbe mai creduto che due funzionari regionali potessero trovarsi a quell’ora, ancora non era giorno,  e in quelle condizioni?), ho sentito un profumo eccezionale, che mi sembrava di conoscere,   spargersi per l’aria ed entrare con prepotenza nelle narici e nella gola. Finalmente avevo incontrato, dopo tanti anni, Sua Maestà dei latticini: u  Musulucu! E come ho avuto modo già di descrivere, in premessa, la mia mente corse velocemente a ritroso nel tempo a quando ero bambino che mio zio Frandinandu Passarelli, fratello di mia mamma Rosina, mi portava aCaravi/Casteggliaci (una zona incastonata tra Careri, Natile, San Luca e Casignana, vicino alla fiumara Careri) da zia Teresa Filippone in quanto suo  padre, Pietro, lavorava il latte e la mia attesa spasmodica era di vedere cacciare dalla cardara nu pugnu i Musulucu, con il suo gusto unico, agro- dolce, che sapeva di formaggio e di ricotta primordiale. Che scorpacciate, a spaccapanza! Non mangiavo più per due giorni in quanto portavo con me una buona porzione di riserva che zia Teresa metteva nella musulucara e avvolgeva in un bianco “muccaturi” ( fazzoletto). 

Più in la, nel corso degli anni, fui chiamato a fare uno studio, sempre insieme al dottor Antonio Minicuci, sul Musulucu (zona Aspromonte e basso e medio  jonio) oMusulupu (zona jonica – Aspromonte  versante Reggio). Tale studio ebbe l’attenzione di famosi esperti e fu pubblicato in una delle più prestigiose riviste internazionali – lattiero – casearie  il “Caseus”. Ma questi sono argomenti scientifici e di alta tradizione pastorale è bene affrontare a mente fresca e molto più opportunamente a pancia piena di Musulucu, per approfondire tale affascinante argomento e le sue tradizioni e leggende. Per parlare di “naci” (una talea di fico che si metteva nel caldaia del latte per favorire la formazione della ricotta e del formaggio), dei turchi e dei saraceni e soprattutto delle musulupare, delle loro varie e meravigliose forme e significato….

Quindi si continuerà a breve con un’altra puntata per disquisire delle tecniche di produzione e delle tradizioni storico-culturali del Musulucu, e sarebbe quanto mai opportuno farlo in una manifestazione popolare “la Sagra del Musulucu” che vieneorganizzata dal Centro Culturale “U Musulucu” di San Nicola di Ardore, (il bel paesino, come una verde bomboniera, situato ai confini del Parco, al limite  dei comuni di Platì e Ciminà), oltre che con il sostegno del Comune di Ardore sarebbe giusto ed opportuno  con il Patrocinio della Regione, della Provincia e, perché no, anche del Parco dell’Aspromonte che potrebbe offrire ai visitatori dello stesso Parco una buona razione di Musulucu nella musulupara, come prodotto tipico, raro e tradizionale  della pastorizia calabrese, tipica  di molti comuni comprendenti il P


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