Tradizioni. L'antico regno del telaio a mano
- Bruno Palamara
Quando si parla di artigianato artistico-tradizionale in generale, e di quello calabrese in particolare, quello che viene primariamente alla mente è sicuramente l’arte della tessitura che è antica quanto il mondo, perché trae la sua stessa origine dalla necessità di soddisfare una delle esigenze materiali primarie, come quella di coprirsi, per difendersi dagli sbalzi di temperatura e dagli eventi atmosferici.
Gli abiti nella storia
All’inizio, e parliamo già dell’Età della pietra, per ripararsi dal freddo e dal caldo eccessivi, i nostri antenati hanno usato le pelli di animali uccisi, per la verità indossate anche per esaltare alcune caratteristiche fisiche o per affermare agli occhi degli altri prestigio e autorità. Poi, con la nascita della tessitura e della contestuale invenzione dei primi rudimentali telai intorno al VI-V millennio a.C., essi scoprirono l’uso delle vesti, che garantivano maggiore protezione e che diventeranno nel corso del tempo, oltre che guscio protettivo, anche strumento di comunicazione, perché gli abiti parlano e dicono a quale epoca, a quale paese, a quale popolo appartenga la persona che li indossa. Ogni persona, infatti, si veste seguendo gli usi, le tradizioni e le regole del gruppo sociale di cui fa parte, rivelando perfino il lavoro, la professione o l’importanza sociale di chi li indossa. La tessitura rappresenta un’attività fondamentale dell’agire umano, celebrata da poeti e scrittori come il simbolo della vita umana. Gli stessi antichi miti greci parlano di popoli che onorano l’arte tessile, la dea Atena (Minerva per i Romani) è protettrice delle opere femminili e, in particolare, della tessitura. Famoso il “mito di Aracne”: Atena trasformò Aracne, abile tessitrice della Lidia, in un ragno, costringendola a filare e a tessere per tutta la vita dalla bocca, punita per l’arroganza dimostrata nell’aver osato sfidare la dea. Gli Egizi adoravano Neith come dea tessitrice, simbolo della natura creatrice. Le più celebri donne dell’antichità sono lodate per la loro bravura nel tessere, arte ritenuta allora nobilissima. Antichissimi frammenti, tra cui dipinti murari di tombe egiziane che raffigurano operazioni di filatura e tessitura risalenti a 2000 anni a.C., testimoniano che la tessitura era già praticata da Egiziani, Greci, Ebrei, Cinesi ed Indiani, anche come mezzo di espressione artistica, assumendo sempre più caratteristiche identificative di popoli, cultura, stato sociale e di capacità decorativa e creativa. É il Rinascimento l’epoca in cui la tessitura diviene vera e propria arte, grazie anche all’arrivo dalla Cina di quel materiale finissimo, lucido e resistente, quale la seta. Fiorì contemporaneamente la produzione di tessuti pregiati, quali raso, damasco, broccato, velluto con disegni complessi e aggiunte d’oro e argento.
Tessere in Calabria
L’arte del tessere costituisce una delle più antiche tradizioni anche per quanto riguarda l’artigianato calabrese, una tradizione che è giunta a noi dal lontano Oriente, facendo conoscere presso le contrade calabresi l’uso del telaio e la bellezza dei tessuti. Per molti secoli, quello della tessitrice è stato uno dei mestieri più diffusi che, però, non ha resistito nel tempo e oggi è sempre più raro vedere tessitrici intente al vecchio telaio. Nell’antichità la tessitura era gestita generalmente a livello familiare, tanto che nelle case coloniche e contadine era sempre presente un telaio a mano al quale lavoravano intere generazioni di madri e figlie. Le donne tessevano la tela per le lenzuola, le tovaglie, gli asciugamani che la famiglia usava quotidianamente o che erano destinati alla dote delle figlie, dote che diventò col tempo una vera e propria “ossessione” per le madri che avevano figlie femmine, tanto che cominciavano a prepararla fin da quando le figlie erano ancora bambine. «Figghjòla ‘nte fasci e dota ‘nte casci!», sentenziava un vecchio proverbio e ancora oggi la tradizione del corredo per la sposa è una consuetudine rispettata dalla maggior parte delle famiglie. Ecco perché la tessitura appartiene alla storia di ogni famiglia, così come il telaio a mano, simbolo della pazienza e dell’operosità femminile. Nei nostri piccoli paesi non c’era casa che non ne possedesse uno. Il poeta calabrese Vincenzo Padula lo ha magnificato, paragonandolo ad uno strumento musicale, tale è il sentimento di dolcezza che da esso si sprigiona. Il telaio a mano, inoltre, ha avuto un’importanza sociale non indifferente, costituendo un efficace mezzo di comunicazione, riuscendo, per la sua capacità aggregativa, a fare stare insieme le giovani donne che sognavano il futuro e le anziane che ricordavano il passato.
Il telaio a mano
Il telaio a mano delle nostre nonne era costituito da una struttura di legno disposta verticalmente e trasversalmente. Esso era costituito da due subbii, quello posteriore che portava l’ordito (‘mbògghja) e quello anteriore che raccoglieva il tessuto fatto. Sul subbio posteriore in un apposito foro era collocata ‘a calambògghja, un regolo di legno che serviva a girare e mantenere fermo il subbio; sul subbio anteriore un altro foro, simile al primo, era collocata ‘a scirta o scistra, specie di manovella che serviva a girare e a stringere il subbio per tenere bene distesa la tela. Il subbio girava dentro un pezzo di legno incavato, detto palumbèglia. La tela era tenuta ben distesa con applicazione, mediante ganci ai lati di essa, di pesi, chiamati vocegli (giovenchi), che facevano da contrappeso ai fili dell’ordito. Attrezzo indispensabile al telaio era la “navetta” (‘a nuvetta), fatta di legno scolpito a mano a forma di barchetta, lunga una ventina di centimetri, dentro cui si collocava la cannuccia (‘a cannèglia), che girava su un fuscello di legno chiamato nechèfiu o passòlu. Altri importanti pezzi del telaio a mano erano a cascita, la cassa in cui era fissato il “pettine”; ‘u pèttinu (parte del telaio che serviva per avvicinare e compattare i fili di trama); i licci (lizzi), la cui funzione era quella di sollevare ed abbassare i fili per consentire il passaggio della navetta; i pedalori, pedali che, uniti con funicelle ai lici e mossi dai piedi della tessitrice, che lavorava sempre scalza, servivano per aprire e serrare i fili dell’ordito, mentre passava la spola. Al telaio la donna calabrese tesseva non solo il cotone, ma anche tante altre fibre naturali, come la lana, il lino, la seta, la ginestra, producendo stoffa per le lenzuola, per le fasce dei neonati, per le coperte, per gli asciugamani e le tovaglie o stoffe pesanti, in velluto o altre per confezionare abiti di lavoro o per la festa.
L’ordito e la trama
Per tessere un tessuto la donna usava due gruppi di filo: quelli per la trama, che tessono “orizzontalmente”, e quelli dell’ordito, che tessono “verticalmente”. Il principio di funzionamento di base è lo stesso per tutti i telai: la realizzazione di un tessuto avviene, intrecciando tra loro fili perpendicolari che prendono il nome di “ordito” (l’insieme dei fili tesi sul telaio) e di “trama” (l’insieme dei fili che vengono intrecciati all’ordito in direzione perpendicolare). Tutti i tessuti nascono grazie a quella tecnica particolare che consiste nell’intrecciare tra loro i fili dell’ordito e quelli della trama. Nella sua versione più semplice l’intreccio è formato da un insieme di fili paralleli verticali (l’ordito), attraversati da un filo continuo orizzontale (la trama) per tutta la lunghezza del tessuto. Successivamente, il pettine, che è la parte del telaio che serve per avvicinare e compattare i fili di trama, veniva battuto con forza, per fare in modo che i fili della trama fossero il più possibile avvicinati tra loro, formando il tessuto. Man mano che la tessitura andava avanti, sulla tela incominciavano a prendere forma i disegni già in precedenza predisposti. Era una scena veramente affascinante osservare lavorare la donna al tilaru! «Il telaio non vuol rabbia, né stizza, né pancia vizza» affermava la brava tessitrice, perché per tessere bene ci vuole calma, tranquillità e occorre aver mangiato bene. Diffusa su tutto il territorio regionale, la tessitura è la produzione artigianale che meglio rappresenta le diverse “anime” culturali della Calabria. I nostri paesi hanno acquistato grande notorietà in materia tessile proprio in base ad una loro specifica produzione artigianale.
I centri più noti
La catanzarese Tiriolo è rinomata per la lavorazione del vancale, scialle tipico calabrese, realizzato in lana o seta con fasciature trasversali multicolori con intramezzature di laminato oro e argento su fondo bianco o nero. Si indossa sul costume tradizionale, come la “pacchiana”, ma viene anche impiegato come decoro ornamentale delle abitazioni, su poltrone, tavoli, pareti. Samo è famosa per le sue pezzare, bellissimi tappeti variopinti, così chiamati perché per la trama vengono utilizzate le stoffe dei vestiti dismessi, tagliati a striscioline sottili, utilizzati anche come decorazione delle pareti. Bova produce le vutane, artistiche coperte e tappeti dalle vivaci policromie di chiari richiami bizantini, prodotti nella forma di teli rettangolari cuciti a tre a tre. Vengono decorati con il motivo del fricazzaneddhu (rombi tipici della tradizione bizantina), del biankisano (croci iscritte), del rosato (a quattro petali) e del mattunarico (croci contornate da rettangoli o quadrati). I motivi ispiratori sono gli affreschi delle Madonne e dei Santi esistenti nelle grotte o nelle chiesette bizantine. L’antica tessitura della ginestra dà lustro a centri della Sila greca cosentina, quale Longobucco, ma anche a quelli dell’Area grecanica, quali Bova, Chorio di Roghudi, Roccaforte del Greco e Gallicianò di Condofuri, oltre ai paesi della vallata del La Verde quali Africo, Samo, dove vengono prodotte ancora coperte di ginestra, seguendo le antiche tecniche di lavorazione di questa fibra paragonabile a quella della canapa. Tanti altri centri meriterebbero di essere citati ancora per i loro prodotti di grande pregio storico ed artistico, tipici di quella che è stata definita la “regina” dell’artigianato artistico calabrese. Ma ne parleremo ancora!