Lettera al Presidente Giuseppe Bombino
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Caro Presidente,
camminiamo assieme da ormai cinque anni e di cose, con questo nostro giornale, ne abbiamo scritte e dette tante.
Confronti duri, tutti tesi all’Aspromonte: tra Lei stretto dalla burocrazia e dai passaggi ufficiali, doverosi per un’istituzione; e noi che ci sentivamo liberi, ribelli, veloci di agire, di parlare, di sognare.
E intese straordinarie, tutte tese all’Aspromonte, perché il cuore infondo è sempre stato lo stesso e le vittorie lo hanno dimostrato: dalla malinconia dei borghi abbandonati alle luci dei Festival più ambiti; dai laboriosi orti di casa all’Expo di Milano; dalle capre lasciate - secondo costume - a pascolare ovunque agli ovili controllati e a norma; dalle piccole produzioni famigliari a delle vere e proprie scuole per pastori e produttori con cui si è ottenuto il rispetto delle regole e il giusto mercato per i prodotti.
La sua intuizione, Presidente, è aver compreso che l’Aspromonte non era solo una montagna, e in quanto tale caratterizzata da flora e fauna e planimetrie, ma era in primo luogo gente che aveva voglia, necessità di tornare a casa. Il suo coraggio, Presidente, è di essersi mosso ai limiti del potere che la carica all’Ente prevedeva per concedere alla gente, per ridare dignità a quegli uomini sgarbati che, con scarpe grosse e polverose, bussavano con insistenza alla sua porta. La sua sfida, Presidente, è di avere riacceso il fervore culturale riportando la vita in montagna, impegnandosi a costruirne soprattutto l’intelligenza, chè un popolo diviso, un popolo senza cervello sarebbe stato - fin da subito - un popolo destinato a morire.
Ed era quello l’unico modo per evitare che la nuova idea racchiusa nel termine – finalmente collettivo - di “aspromontani” venisse ancora frammentata nelle marine, defraudata della terra e dell’anima, uccisa come settant’anni prima l’alluvione aveva ucciso l’Aspromonte orientale.
È stato Lei, Presidente, a immaginare e a forgiare questo popolo resistente e previgente dei pericoli; giovane, colto, laborioso e benestante; e a fare in modo che le storie immortalate dal nostro Zanotti Bianco, tanto citato e amato nei convegni e negli articoli, siano quel passato da tenere lontano.
Presidente, Professore, Uomo: potrei chiamarLa in mille modi senza mai sbagliarmi. Ma di Lei io ho in mente il ragazzo, piombato all’improvviso nel cuore della montagna con quell’accento reggino che i provinciali detestavano, perché aveva un suono doloroso per chi - della città - ricordava l’abuso e il continuo esercizio di supremazia. Il ragazzo pronto, per questo, a dimostrare affrontando ogni prova: sia stata essa una strada sterrata, un dirupo, un preconcetto, un confronto arduo con gente diffidente e ferita.
Lei già sapeva, Presidente, che l’Aspromonte non era un nostro capriccio, una due giorni chic da fotografare e condividere sui social come esperienza unica, indimenticabile, dura ma da provare; che l’Aspromonte non era mai stato difficile, impenetrabile, oscuro, raggiungibile per “gentile intercessione”.
L’Aspromonte esigeva normalità, era un mondo con i suoi percorsi in salita e con quelli in discesa; con la polvere che preparava al piacere di fonti e cascate e fiumare in cui trovare sollievo; con le spine e le ginestre a tappeto nei boschi, e con frutti maturi e colori mutevoli in ogni stagione.
Erano gli uomini ad essere difficili per la montagna, quegli uomini da ella stessa partoriti ma talmente mutati negli anni, in vizi e costumi, da esserne divenuti inadeguati.
Per noi, e per i pochi che lo vivevano in totale dedizione, l’Aspromonte era l’essenza. E arrivare all’essenza voleva dire arrivare alla vita, quella depurata dai luoghi comuni e dalle chiacchiere.
Lei – all’improvviso - ci camminava in mezzo.
Silenzio. Ricorda la strada che portava ad Africo antica? L’Aspromonte pretendeva, imponeva il silenzio. Attenzione, sguardo attento e piedi saldi alla terra per potersi lanciare all’improvviso a superare un masso, un dirupo, una lingua d’acqua.
Fiato ed energia. Perché l’Aspromonte non era un albergo, un pranzo all’ostello, un punto d’arrivo; non è mai stato un porto in cui attraccare ma mare aperto, braccia, cielo e Dio a cui affidare l’ultima bestemmia.
Nel torpore delle notti che non conoscevano luce diversa da quella delle stelle, contavamo gli affetti volati via e se ci fosse qualcuno per cui valesse la pena tornare; ripercorrevamo gli anni, stando immobili per ore, seduti su un qualche masso, come bambini stanchi del gioco e del tempo perduto; quel tempo ci insegnava che proprio le amarezze nutrivano e ingrandivano i sogni, e che i grandi sogni per realizzarsi non potevano restare abbarbicati in montagna: dovevano passare dalla marina, dove tutto si scriveva e si compiva.
Li affidammo a Lei.
Oggi, Presidente, è tempo di stime e, a qualche giorno dalla fine del suo mandato, Lei sa già per certo che sarà ricordato per una serie di atti che hanno reso giustizia al territorio.
Tra questi l’elezione del sindaco di Africo a presidente della Comunità del Parco, Comune che sapeva bistrattato e mai premiato per l’importante fetta di territorio concesso all’Area Protetta; l’istituzione del Premio letterario Saverio Strati, strutturato insieme al giovane sindaco di Sant’Agata del Bianco con l’intento di dare lustro al Supercampiello, dimenticato per anni dalla sua terra. E sarà ricordato per avere acceso le luci su Precacore, borgo che – nascosto all’ombra della sua Samo - solo Lei avrebbe potuto scovare; e per l’incredibile gioco diplomatico che ha tessuto ottenendo 10 milioni di euro da investire sulla viabilità; e per i numerosi progetti e accordi di programma avviati in questi anni a discapito di sagre e di luoghi comuni.
Ma è l’attenzione con cui Lei ha raccolto ogni istanza a lasciare sgomenti; imparando a distinguere, pesare, valutare sul campo. È quel “noi” ribadito in ogni evento che ha fatto sentire finalmente grandi e degni gli aspromontani, persino giù alla marina.
È per avere camminato insieme ad essi, per cinque anni, guardando l’uomo prima che il lupo o il castagno, perché l’ambientalismo o l’idea di “area protetta” non diventasse fanatismo a discapito delle persone.
È una traccia importante, pesante, che non si è fermata alla terra ma ha scavato la roccia. E che resterà indelebile sull’Aspromonte orientale così come nella tradizione orale degli aspromontani. Il più grande atto d’amore che questo popolo può regalarLe.
antonella italiano