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Antonella Italiano

Antonella Italiano

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La riflessione. Il mondo in carrozza

Amo viaggiare in treno. Penso che questo mio amore si radichi nel passato. Quando da ragazzo al mattino presto, anzi prestissimo, era ancora buio, partivo dalla stazione di Palizzi marina: direzione Messina.

Ricordo che il treno, dai sedili in legno, diciamo, diversamente comodi, arrivava direttamente nella città peloritana, ospitato dal caldo ventre della nave. Ricordo ancora, come fosse ieri, che arrivato a Messina venivo rapito da quel turbinio di gente, di voci, di colori ben distanti dalla quiete del mio paesello. Che era, e rimane, indimenticato.

Il treno è la vera dimensione del viaggio e dell’incontro. E ritengo che nel treno non viaggino solo persone, ma comodamente sedute riposano le loro storie, pronte ad essere immaginate. Mentre scrivo, estemporaneamente, sono in una carrozza dove vi è un mondo, il mondo. Un indiano, un marocchino, una famiglia rumena, due studenti, ed io. La tratta è breve, ma non abbastanza per impedirmi di immaginare le storie viaggianti. L’amico marocchino sconvolto dalla fatica rientra a casa, che non è la sua casa. Provo ad immaginare, anzi a sperare, che ad attenderlo ci sia la sua Fatima. Concedetemi questo luogo comune. L’ultimo per oggi. Forse lo attenderanno altri fratelli. Infondo, confido in Fatima. La famiglia rumena almeno è unita, pur nella distanza dal luogo natio, e mi sembra di vederla combattere silenziosa contro il pregiudizio che li vede tutti ladri e disonesti.

Quanto sembrano distanti le valigie di cartone. Abbiamo dimenticato le nostre valigie di cartone… L’indiano, elegante e regale, con animo di guru regge la fatica meglio del fratello africano, ma nei suoi occhi alberga la nostalgia della sua terra. Negli studenti sento i contrasti tipici della loro età. Non vorrebbero trovarsi lì, ma in un futuro lontano, dove l’incertezza è scesa alla stazione precedente. Sono immersi nelle loro cuffie ad ascoltare il loro mondo, che è in fondo quello che gli abbiamo lasciato. Mi viene da chiedergli scusa. Non lo faccio, lo penso. E tanto mi basta.

Che pensieri strani vengono in treno. Viaggiando in un breve tratto, in compagnia della mia storia, e di quelle altrui. Poi d’improvviso un suono di tamburello ed organetto. Riprodotto. Una suoneria di cellulare. L’amico africano risponde nella sua lingua e stacca così il suono familiare. Parla forse a Fatima, o almeno così spero. Arrivo, scendo, e saluto con la mano la mia carrozza che prosegue verso la linea ionica. Saluto le storie viaggianti che mi guardano stupite. Quello strano calabrese che – non lo sapranno mai – si è nutrito delle loro vite inventate.

L'editoriale. Francesco Munzi, un regista solo

Il carro dei vincitori è pieno, e forse questo lo avevamo previsto, ed è umano rispolverare immagini o ricordi che rimarchino il diritto di esserci saliti. Così quell’impresa coraggiosa di Francesco e Gioacchino, che è aver girato il film, che è aver scritto il libro, diviene essa stessa più umana, più alla portata. Attimi fugaci, abilmente ricostruiti dai più, che mostrano un regista e uno scrittore non solo alla mano, ma a diretto contatto con essi. Nulla da dire sulla disponibilità di entrambi, ma con “i più” non mi tornano i conti e spesso mancano di buongusto.

Grazie a Francesco per aver condiviso con l’Aspromonte, con Bianco e con Africo in particolare, il suo David più bello. E per averlo fatto da quell’altezza da capogiro senza battere ciglio, istintivamente, come un fiume in piena. Una dedica agli ultimi, a quei puntini che avrebbero dovuto essere già spariti dalla sua vita, ma che lui ha anteposto agli affetti più cari.

È stato bravo, è stato un genio. Ed io ho temuto fino a Venezia che la sua opera cinematografica venisse strumentalizzata dai giornalisti e dal pubblico, che mai guardano all’arte ma sempre al “caso”, che la fa da padrone oggi su tutte le televisioni, spostando l’attenzione sui minori, oltre che sulla ‘ndrangheta, propinandoci omicidi e stupri da mattina a sera. Persino nei programmi estivi, da sempre più leggeri.

Un regista sempre al limite, che si è mosso con intelligenza sullo sbiadito confine che esiste tra gli ndranghetisti e le anime nere, costringendo la platea internazionale finalmente a prenderne atto. Mi auguro lo facciano pure gli uomini di Stato, che bollano di associazione mafiosa (si dice persino per un caffè) qualsiasi individuo si muova nelle zone A della Locride.

Viaggia per le sue mete prestigiose in compagnia, Francesco. E “buona” lo riservo per le persone che non conosco, su cui non saprei esprimermi, e per gli ultimi che non hanno potuto seguirlo, né a Venezia, né a Roma, né all’estero, ma che lui con tanto amore si è portato dentro. Perché è stato un regista molto solo, prima, umiliato dall’essere costretto a risolvere i problemi più banali. E se la lotta con i produttori fa parte del mondo stesso del cinema, come è stato testimoniato da nomi altisonanti proprio durante la consegna dei David a Roma, ed è un braccio di ferro comprensibile considerate le enormi cifre che questi scommettono al buio, altre non avrebbe proprio voluto farle. E gli si poteva concedere, con un po’ di autocritica e di coscienza, almeno oggi l’onore delle armi, come merito aggiuntivo al suo coraggio.

La storia è storia. Ed io non ricordo né presidenti, né assessori, né consiglieri di enti e istituzioni pubbliche entusiasti e disponibili ad accogliere il suo progetto. E non ricordo né presidenti, né assessori, né consiglieri di enti e istituzioni pubbliche alle numerose prime che sono state volute qui in Calabria. Perché muoversi tra gli ultimi si teme possa sporcare il vestito buono, o perché come scrive Gioacchino i primi tendono al perenne immobilismo. Ma poi accade che arriva un regista “al limite” e inizia a correre, senza pensare agli allori, al glamour, all’in, e lavora a testa bassa e sfodera un intuito clamoroso nello scovare rose tra le spine. E poi la stravittoria inverte tutto, persino i fatti. Letteralmente.

Ho sentito diverse persone ammettere di essersi sbagliate, e altre non gradire la linea del film pur riconoscendo i meriti artistici del regista; sono remore che testimoniano solo il profondo legame con questa terra e il timore che ricordare alcune pagine dolorose possa allungarne l’agonia. Posizioni legittime, e sostenute non con arroganza ma con grande serenità.

Perché è ammettere che fa di un uomo un Uomo, una tesi perfettamente in linea con il messaggio rivoluzionario che dalle stesse anime nere viene lanciato; esse non rinnegano mai le loro azioni, siano state buone o cattive, piuttosto le rimettono in discussione. La saggezza, del resto, è una dote senile. Mi stupisce solo che alcuni, aggrappati vanitosi proprio a quel carro, non solo non ne abbiano capito le potenzialità ieri, ma non colgano neppure oggi il senso e del film e del libro.

Scendete dunque, e guadagnatevi gli allori al tempo giusto e nel vostro campo, ché se abbiamo abusato dell’aggettivo “ultimi” lo abbiamo fatto per ironia. E quel carro non è mai stato il vostro posto.

Feltrinelli e Rubbettino, l'autunno d'oro del nostro Criaco

Antonella Italiano: no, non puoi andartene senza dirci nulla..

Gioacchino Criaco è in Calabria solo per un giorno. É sceso per presentare, a Reggio Calabria, un cortometraggio che dieci filmaker, scesi da diverse parti d’Italia, una arrivata dalla Cina e un paio calabresi doc, gireranno nella città dello Stretto. Corto che sarà presentato al festival di Venezia, per raccontare una Reggio fantastica, che così non si è mai vista.

«Si, sono sceso solo per questo, – ci dice Criaco –  perché il progetto del corto è stato messo su da un mio amico, Fabio Mollo, un grande regista reggino, di cui fra qualche anno andremo tutti orgogliosi. A fianco a lui c’è anche un grande regista siciliano, Piero Messina, con un film, L’Attesa, quasi pronto».

A: si, Gioacchino, ma la mia domanda è un’altra.                              

G: aspetta, Antonella, questa cosa di Fabio Mollo è molto importante. É un progetto che va sostenuto, perché ci nasca intorno un appuntamento fisso, che faccia capire l’utilità del cinema come elemento di sviluppo culturale, ma anche come risorsa economica per una terra che ha una vocazione cinematografica che dopo il Sud è Niente e Anime Nere, molte produzioni cominciano a capire.

A: si, Gioacchino, ti prometto che daremo a Fabio Mollo e al suo progetto lo spazio e il sostegno che meritano. Però, girando sulla rete abbiamo trovato le tracce di un tuo nuovo libro. Anzi di due nuovi libri, uno targato Rubbettino e l’altro Feltrinelli, che usciranno agli inizi di ottobre. E scusaci, per una volta, senza finzioni, lasciaci approfittare del fatto che sei una delle nostre firme, dicci qualcosa. Anzi, essendo io il tuo direttore, pretendo qualcosa di più.

G: Non posso dirti troppo, perché ancora non c’è molto da dire, e non voglio, per rispetto alle altre testate calabresi che mi hanno sostenuto nel percorso difficile di Anime Nere. Ti posso solo dire, è sono cose che come hai detto tu si trovano in rete, che a ottobre uscirà per Feltrinelli Il Saltozoppo, una favola nera che amo quanto Anime Nere. Mentre Rubbettino ha deciso di concentrarsi ancora sulle potenzialità, sempre in crescita, di Anime Nere, e stiamo per chiudere un volume che racconta la favola del film, con i contributi di Francesco Munzi e Goffredo Fofi, e tante altre splendide sorprese.

A: si, ma nel dettaglio, di cosa parlano..

G: più avanti Antonella, fra qualche ora riparto, ci devo lavorare.

A: e vabbè, manco stavolta ci vuoi favorire. Però, cambiamo argomento, visto che per lunedì Oliverio varerà la nuova giunta. Tu, non è che ci starai dentro in qualche modo.

G: Antonella, non è che per qualche premio vinto si diventa importante. Sempre capraio aspromontano e irregolare resto. A parte gli scherzi. Il presidente, e tanti altri politici calabresi, mi hanno mandato i loro complimenti. E la cosa mi ha fatto piacere per quella Calabria messa ai margini che in qualche modo rappresento. Per il resto, domani torno a Milano, a sudarmi il mio pane.  

L'editoriale. Sotto un altro cielo

Buon viaggio Gianni, saggista, scrittore, giornalista, amico.

Perché in molti crediamo che tu ci stia osservando, in una dimensione nuova, superiore, senza altre sofferenze se non l’attesa. E tanti di noi avrebbero un aneddoto, una dedica, una mail, un messaggio da condividere con gli altri, tracce che con pazienza hai lasciato nel corso della vita. Chè la cosa più triste per chi parte sarebbe non lasciare il segno, e la cosa più triste per chi resta non saperlo cogliere.

E tu sei stato un impeccabile ascoltatore, lettore, osservatore, e hai amato le cose grandi e quelle piccole, trattandole con uguale decoro.

Dei silenzi, in cui ti sei rifugiato quando stavi male, ci resta il rammarico di non averli compresi.

L’ultimo bambino ad aver lasciato quel paese arroccato sull’Aspromonte, che ti ha insegnato l’odore delle stagioni, quello del pane, il suono delle preghiere e del pianto, i colori del natale in chiesa, con tua madre.

Brancaleone. Sarà stata proprio questa nostalgia ad aver forgiato il tuo cuore di scrittore, e sarà stato grazie ad esso che sono nate quelle belle storie che ci hai regalato. Ma ci sarà mai ricambio per il posto che è rimasto vuoto? Nessuno che possa parlare di montagna o di cultura, nessuno che possa eguagliare la poesia degli scrittori persi.

Ed eccoci, in quest’inferno di mediocri e acculturati, buoni solo per le sagre di agosto. Che agognano un posto al tavolo dei relatori a qualsiasi ora, in qualsiasi paese, su qualsiasi argomento, e che ambiscono al nome in locandina. Quest’inferno di giornalisti e aspiranti che, al massimo, potrebbero “andare” su facebook, mentre passano le giornate sui siti a caccia di incidenti stradali, stupri, disgrazie e foto da dare in pasto al pubblico, attentamente conteggiato da Google analytics. Che ne sanno loro della gente? Della terra? Del cielo? Cos’è la cultura se non il popolo con il suo sentimento e la sua storia?

Rubacchiano e incollano, senza farsi domande, senza farsi stupire, senza lasciarsi intridere dalla gente; si dicono aperti ma temono il nuovo, si sentono coraggiosi ma persino quella famigerata capra, se l’incontrassero per strada, li spaventerebbe.

Chi fa cultura non parla di cultura, non si dice intellettuale, si rifugia in silenzi opportuni piuttosto, interviene con competenza e solo se è il caso, vive la vita a modo suo, contestualizza ogni cosa, ha un suo pensiero. Un suo stile. Dei successi. Degli errori. Ha le sue opere e mai un obiettivo; chè la cultura non è un mestiere, tanto meno lo è argomentare per anni i libri degli altri, lasciando intendere di saperne più dello stesso autore. La cultura non la scrivono i caffè il sabato sera, né le fondazioni, come il giornalismo non è fatto di foto di prostitute e di innocenti squartati dalla Statale.

Con le dovute oneste eccezioni, naturalmente.

Non ci sarà ricambio, finché un video costruito su Movie maker con quattro immagini e due sottotitoli sarà da qualcuno definito “opera”, e finché il paese continuerà a isolare piuttosto che sostenere il suo letterato di spicco, televotando invece con prontezza il ballerino e la miss Italia di turno.

E mi fa rabbia che la voce degli umili, che tu tanto amavi, non venga più ascoltata. Perché là, in quella simbiosi con la vita e con le cose, c’è la notizia che tutti rincorrono, e nascoste dal buio, lontane dai riflettori per geografia e per natura, le cose più belle da raccontare. Ma ci vuole cuore per riuscire a vederle, un cuore come il tuo.

Io credo che lo spirito di un artista voli in alto, a cercare la sua quiete, in un volo libero, sconvolgente, pericoloso. E che proprio quel volo, quell’aria, quell’altezza, quel rischio siano la sua vita e la sua completezza. Il suo genio.

Così ti immagino oggi, caro Gianni, con le ali tese in un volo notturno, senza altri spazi se non le ombre della tua Brancaleone, e sotto un altro cielo.

Il cielo di Peppina.

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