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Antonella Italiano

Antonella Italiano

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La lettera. «Per Natale ti regalo il sogno»

Un giorno camminerai lungo i sentieri polverosi che portano a Campusa, con la montagna da un lato e una vallata minacciosa dall’altro, ma non avrai paura. Se sarà notte sentirai i ghiri cantare, e rincorrersi tra le foglie delle querce.

Se sarà giorno un sole tiepido ti scalderà la pelle, e accorcerai la strada passando attraverso i rovi e le ginestre spinose.

Sentirai le spine sulla tua pelle bianca, ma non proverai dolore.

Le strade di pietra ti parleranno della tua gente, così intensamente che ti fermerai ad ascoltare. Sull’uscio di una casetta abitata solo da un vecchio pipistrello starai in piedi per ore, respirando a pieni polmoni l’aria fresca della montagna.

Là immaginerai la tua vita, una famiglia, dei figli. Sentirai il calore di un focolare ormai spento, e l’odore di fumo e di carne arrostita. Poi, riprenderai la strada verso il paese, seguendo il muretto a ritroso. Staranno lì, ancora, a sfidare il tempo: la caserma, la scuola, il municipio.

Penserai che è un peccato, guarderai Casalinuovo sull’altra fiancata, sospeso come il nido di un’aquila nel cielo d’argento dei tuoi avi. Capirai quanto è grande il peccato, e andrai avanti.

Avanti fino alla piazza, in cui dei massi abbozzeranno scomode panchine. Ma mai una piazza ti sembrerà più bella, e così piena di vita pur essendo deserta. Appoggerai la schiena su un muro pieno di formiche e guarderai incantata la chiesa del paese.

Aspetterai così la notte, quando ti verrà a svegliare l’odore dell’erba umida. Poi te ne andrai, seguendo il sentiero delle stelle, e accarezzerai le enormi sculture in pietra che ne tracciano il profilo. Penserai che sono fredde, e lisce, e troppo grandi per essere opera dell’uomo, ma troppo ben levigate per essere opera della natura. Ti prometterai di cercare una risposta più convincente. Si, prima o poi tu la troverai.

Scriverai? Sarai serena? Ti ameranno mai abbastanza?

Qualunque cosa accada, là sotto, tu nella tua montagna tornerai, perché a te, che rendi speciale questo Natale, non abbiamo altro da donare se non il nostro sogno. E il testimone di una vita discutibile, di cui, per paradosso, sei proprio tu il senso.

E sarai sempre tu il giudice, perché sceglierai cosa tenere e cosa dimenticare, persino del lupo più cattivo.

Un giorno un lupo mi disse: «Sai cos’è la felicità? Un minuto, due minuti, tre minuti di ogni giorno. Io non so quanto dura quando arriva, ma so che arriva puntualmente, e la aspetto. Qualunque cosa accada la mia felicità arriva. C’è chi la sua felicità non l’ha ancora trovata».

A te, bambina, che hai dalla tua parte il tempo ma che con esso ti scontrerai fino a sfinirti io regalo tutta la nostra montagna, e ti auguro un minuto, due minuti, tre minuti di felicità. Ma di ogni giorno. E il più a lungo possibile.

Da Lombroso ai “professionisti della legalità”: non ci sono più i nemici di una volta!

Compresi cosa fosse Africo solo quando risalii le sue montagne, toccando le pietre che furono scelte dalla sua gente: là una casa, là una strada, là una chiesa, là un ponte. Respirai gli odori che questo popolo si portava nel sangue, sapevano di erbe, di funghi, di terra e animali, e di carne di capra messa a bollire.

Vibrava ancora un grande dolore, lassù, che non giustificava ma spiegava molti silenzi, e persino qualche errore. Ma quell’infinito avvicendarsi di giorni e di notti si perdeva nelle vallate come un grido, come un’eco risucchiata dall’Aposcipo.

Così andai oltre e di Africo desiderai un figlio, un figlio che avesse il sangue aspromontano, e delle braccia e delle gambe forti per sostenere il peso della fiera montagna, e amore a sufficienza per provare a domarla, e una buona dose di follia per non lasciarla ancora.

Si, folle! Proprio come chi crede in questo giornale che puzza già di carogna, e lo fa perché c’è qualcosa, nelle pagine, che gli appartiene; non perché viva geograficamente sul livello del mare. È il passato, dolce o amaro che sia. È la famiglia, nei giorni delle feste. È la leggerezza di correre fuori per giocare, senza altri pensieri. È la figura rugosa del nonno, che ritorna sui volti stanchi dei nostri genitori, e ci spiega. E ci piega.

Se desiderate comprendere la gente d’Aspromonte sporcatevi dunque le mani, scavando nei loculi che essa stessa si è costruita, per proteggersi. E sporcatevi i piedi, per raggiungere i luoghi che le sono familiari, perché se strade ancora esistono non sono fatte di asfalto. E sporcatevi la coscienza, perché la legge che protegge se stessa – e che molto spesso occulta – non riuscirà a spiegarvi le sue ragioni.

Se ciò che vi spinge è altro, allora noi saremo il Muro: attaccateci pure i vostri faticati commenti di solidarietà. E spiegate a qualche amico del Nord (e del Sud, ahinoi) che abbiamo già avuto il nostro Lombroso, e che la decadenza avanza, perché quello almeno fu uno scienziato…

L’editoriale. Ave, cacciatori di taglie!

È tutto fermo qua alla discarica, o meglio si muove tutto molto lentamente.

Alla vasca più in basso, quella che parzialmente aveva ceduto, gli operai stendono delle geomembrane nuove di zecca, mentre in quella più grande ristagnano ancora litri e litri di percolato, ed è colma fino al bordo.

Sono passati quattro mesi da quando facemmo appello a politici e giornali, da quando qualcuno denunciò la nostra presenza alle forze dell’ordine per distogliere gli obbiettivi dalla discarica, da quando sfidammo il fango, la gente, la stampa per dar voce alla notizia, da quando si tentò di persuaderci, prima morbidamente, poi con parentesi offensive di tristi cabaret.

E, a parte il tempo, e un’insicura autobotte, e i segnali di zona sotto sequestro un po’ più a chiare lettere, e i profili nudi e scarni delle collinette circostanti, nulla è cambiato.

Nessuno si chiede cosa stia accadendo quassù, mentre sulle poltrone si dibatte di nulla – ma con soddisfazione – del chi, del come, del quando, del perché, leggendo le risposte dal gobbo.

Pena. Provo pena. E ascolto sbalordita la favola che si raccontano, di nani, giganti, tranelli, streghe e mostri. Ma Biancaneve è poco all’altezza delle ambizioni della storia, in molti si domandano cosa ci faccia così lontana dal bosco…

Il governatore Oliverio continua a ribadire di stare tranquilli “che il sito sarà chiuso definitivamente”, e ci preoccupa che senta la necessità di farlo “a braccio” ogni qualvolta venga fuori l’argomento, e senza accompagnarsi a documenti scritti. Dopo quattro mesi qualcosa di più ufficiale è lecito aspettarselo. Ma forse ci sarà…

E dopo quattro mesi televisioni e giornali un salto quassù avrebbero dovuto farlo, perché sussiste il poco noto “pubblico interesse”. Esso è il limite di noi giornalisti, e va di pari passo con il buon senso e con la deontologia. Ogni qual volta pubblichiamo sulle nostre testate una foto o una notizia, infatti, dovrebbe scattare la domanda «Sussiste l’interesse pubblico?»: un interesse che non è una questione di gusto, ma un dato oggettivo.

Esempio: c’è interesse pubblico nel mostrare pezzi di ragazzi smembrati sulla strada della Limina? Dare voce a un pettegolezzo piuttosto che a una notizia? Ce n’è nell’informare la gente sui dati di un probabile rischio ambientale? È bene che inizi a farsela il pubblico questa domanda.

Invece alla discarica non ci sale mai nessuno, nonostante sia un dovere sollecitare delle soluzioni rapide e vigilare, come stampa, per e con il popolo. C’è una bella differenza tra garantismo e corruzione; il primo è un ragionamento, così perfetto nell’andare oltre le cose, che attiene quasi a Dio. È un vero peccato snaturarlo e stuprarlo, tirandolo fuori dal cilindro a seconda delle necessità. O del chi. Ma dobbiamo stare attenti a non a fare un errore grossolano: garantismo attiene al debole non al Potere.

Deontologia. Mai nessuna scuola, o corso, la potrà spiegare. La deontologia è buon gusto, è cuore, è fermarsi prima del limite, ed è molto difficile in un mestiere che basa la sua essenza sullo scoop, sulla sorpresa, sul tempo, ma è per questo che non tutte le testate, i direttori, i giornalisti sono uguali.

Affidabilità. Se c’è una cosa che è importante per una testata, oltre alla grammatica e alla sintassi, è l’affidabilità. Essa è lavoro e verifica, buona conoscenza delle responsabilità, buoni rapporti con le fonti, intuito e metodo di indagine.

Più una testata è affidabile, più è forte, non importa quanto sia grande. C’è una sorta di oggettività nascosta in tutto questo, cioè la capacità di ascoltare tutti e dar loro spazio ma con buon senso, e con una nota di criticità che attinge al giusto. Perché c’è un “giusto” in ogni cosa, non tutto è opinione personale; soprattutto per un giornalista che “opinioni personali non ne ha”, a meno che non stia scrivendo un editoriale con sopra evidenziato molto chiaro che si tratta di opinione e non di informazione.

Arrivo al dunque: credo che barattando l’affidabilità con la convenienza, disconoscendo la deontologia, scambiando il garantismo per la corruzione, cancellando il buon gusto, il buon senso, il pubblico interesse, un giornalista finisca per fare il pubblicitario. Che è una bella professione, ma è cosa diversa.

Il problema di grammatica e sintassi restano solo delle ulteriori aggravanti.

Sarà colpa de Le Iene, e degli stronzi che le hanno chiamate, se questa terra non potrà accogliere quest’estate i milioni di turisti che attendeva. Ma vendere la penna – riflettiamoci colleghi – denigrando noi stessi, le nostre testate, la nostra professione, la nostra libertà, non è un danno da meno…

L’editoriale. Il tempo di un uomo: un codice da pronto soccorso

Sulla strada verso il pronto soccorso iniziò a battergli forte il cuore, ebbe il timore che quella corsa forsennata che percuoteva le sue vene e gli rimbombava in testa cessasse all’improvviso. Inaridendolo.

Un dolore fisso al petto, allo stomaco, al braccio, e uno stato di coscienza che alimentava un terrore crescente. «Fermati, ti prego, fammi scendere» «Scendere? Dobbiamo arrivare in ospedale» «Un attimo solo, stiamo calmi, mi passerà». Ma chi guidava l’auto, quella sera, era ancora più spaventato di lui, e rinunciò a insistere.

Scendere. Per respirare aria fresca, per fermare l’auto, per rallentare i battiti, perché era un giorno di festa per tutti, anche per lui qualche attimo prima, per non sentirsi un paziente. Perché aveva paura.

Guardò la strada e il marciapiede, si appoggiò al finestrino annusando la vita, sbirciò negli abitacoli delle altre auto, si strinse una mano sul petto cercando di fermare il cuore. Si, aveva paura.

Al pronto soccorso quella corsa fu giudicato un codice bianco. Nome, cognome, sintomi, si sieda in sala d’attesa. Meglio, pensò, immaginando già un’ambulanza in corsa verso Catanzaro, una barella, o un lettino anonimo dimenticato in qualche angolo. Ora poteva gestire il suo tempo come voleva. Si rese conto che era un pensiero egoista il suo, dettato dalla paura, non dalla ragione. Ma cosa poteva farci se i medici lo avevano messo lì? Giustificò così soprattutto se stesso.

«Non è giusto, è assurdo. Come ti senti?» «Tranquillo, meglio» ma una fitta gli spezzò il fiato, e sentì il braccio gelido e impotente. Era un giorno di festa, e mentre molti gozzovigliavano nelle case, lì continuava ad arrivare gente. Ad arrivare codici di vario colore.

Una bimba di appena tre anni aveva perso un dito, la mamma cercava di distrarla, tenendole ferma la mano. Sembrava un soldato quella giovane donna, col cuore rigido dinnanzi alle urla strazianti della figlia, che continuò sempre a rassicurare. La fissò, chiedendosi dove fosse finita la sua paura, poi la vide scattare come un lupo verso la sala in cui i medici ricucivano la sua bimba. Arrivare alla porta. Fermarsi. Tornare indietro. Fece così ogni volta che il peso di quel pianto le sembrò insostenibile.

Ma non entrò mai.

Ecco, anche la mamma aveva paura.

Un uomo, piuttosto anziano, arrivò con i suoi piedi. Non si lamentava, ma ripeteva a denti stretti una qualche bestemmia, irruppe nella sala dei medici, si fece strada tra la burocrazia ora con una minaccia, ora con un lamento, e riuscì a farsi visitare. Subito.

E poi altri bimbi, uno aveva pochi mesi e la febbre molto alta, uno era un po’ più grande ed aveva in gola qualcosa che non riusciva a mandare giù. Troppi drammi per un giorno di festa, pensò, stringendosi nel giubbino e cercando una posizione più comoda su quelle sedie di plastica in serie.

Non capì bene in base a cosa si decidesse il colore del codice, ma l’attesa gli sembrò esagerata per tutti, perché tutti avevano un dolore da attenuare, un terrore da cui fuggire, una vita a cui tornare. E figli, e amori, e case. Quant’era importante, in quei minuti, ogni singola cosa.

Si accorse, affacciandosi per respirare un po’ d’aria, che il cielo era sereno. Come sarebbe stato domani? Si accorse che c’era un altare dedicato alla Madonna; era accanto al piazzale, lungo la stradina che collegava il pronto soccorso alla strada dei parcheggi. E c’era una piccola siepe e qualche albero. Gli sarebbe sembrato strano in altri momenti, ma quella sera no, anzi era rassicurante. Sarebbe passato, si disse, dopo i controlli, nel tornare a casa.

Si sedette di nuovo, il freddo aumentava quel bruciore che si estendeva alla spalla e alla gola. Guardò il distributore di caffè, lo avrebbe voluto. Guardò il suo amico, sembrava impaziente. Il bruciore divenne dolore, e premette la mano sul petto per cercare un’altra volta di fermarlo. Sono un codice bianco pensava, mentre il dubbio che era stato fatto un errore diventava certezza. Ed iniziò ad urlare, a contorcersi, a chiedere aiuto. E finalmente il codice divenne rosso.

Rosso, come quando il tempo è fondamentale per decidere le sorti di un uomo.

Il tempo di un uomo messo in attesa.

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