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Antonella Italiano

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Bianco. Dal 1 ottobre i profughi sono stati lasciati soli

Arriviamo al Centro Com di Bianco che sono le dieci di sera. I profughi stanno all’aperto, stranamente silenziosi; non ci vengono incontro come qualche settimana fa, piuttosto sembrano voler confondere la loro pelle nera con la notte, per sfuggirci. Sono soli al campo, da venerdì scorso, perché i Rangers hanno dovuto lasciarlo dopo che, con un incarico ufficiale da parte dell’amministrazione, e per volontà del prefetto, l’assistenza era stata protratta fino al 30 settembre.
Dal 1 ottobre invece era previsto per i profughi lo smistamento in una nuova location, più confortevole e meglio attrezzata, oltre a un presidio medico fisso, altri bagni, e tutti i beni di prima necessità che sarebbero loro serviti.  Ma, nonostante questi buoni propositi, di fatto la situazione è peggiorata.
Soli, senza la possibilità di comunicare un eventuale malessere, segnalare una rissa, richiedere aiuto, attendono la notte. Mangiando di malavoglia. Senza documenti, senza soldi, senza la possibilità di comunicare con le famiglie.
E poi un’altra ancora, poi un’altra ancora.

Bianco. Il calvario dei 40 profughi: tra fughe, prostituzione e coltellacci

Un altro profugo è scappato dal centro Com di Bianco. Sono ormai in sei coloro che, ospiti dal 30 luglio scorso dell’amministrazione, hanno lasciato la sede di prima accoglienza.

In 40 erano stati inviati dal prefetto, dopo la sbarco in Sicilia, in attesa di essere destinati ai centri Sprar, dunque di essere identificati: accolti o rimpatriati. Uno stato di emergenza che si è prolungato fino alla data odierna, e che dovrà protrarsi fino al 31 dicembre, come stabilito nell’ultima riunione in prefettura lo scorso martedì 6 settembre.

Oggi, accanto ai restanti 34, lavorano come volontari i membri dell’associazione Rangers, che assistono giorno e notte gli extracomunitari e che, qualche giorno fa, hanno protocollato in Comune la domanda per ottenere la gestione ufficiale. Oltre ai viveri, infatti, i profughi necessitano di un presidio medico, assistenti sociali, interpreti, bagni chimici e di un abbigliamento più consono alle temperature. Chiedono anche delle attività da svolgere: lezioni di lingua italiana e lavoro, nella speranza di recuperare i documenti.

Il malcontento, generato da questa attesa infinita, è una bomba che rischia di esplodere. Per ben due volte i profughi si sono recati dinnanzi al sindaco Canturi per chiedere beni di prima necessità, sfilando tra la sbalordita cittadinanza bianchese. Un atteggiamento pacifico all’epoca dei fatti, se pur animoso, e richieste legittime.

Ma è un gruppo troppo eterogeneo, questo residente al centro Com, per sperare che la situazione si mantenga nei limiti senza migliorare i presupposti dell’accoglienza. Le risse tra esponenti di diverse nazionalità sono ormai all’ordine del giorno. Sono stati i Rangers a sedarle e a segnalarle prontamente alle forze dell’ordine; Giuseppe Pollifrone, presidente dell’associazione, chiede un presidio militare stabile, e un maggiore aiuto da parte dello Stato.

Il gruppo va monitorato: alcuni profughi sembra siano già stati in Italia, altri - che si dicono provenienti da poveri villaggi africani - ostentano su facebook foto che indicano tutt’altro. Bianco deve pretendere dalla prefettura, oltre al sostegno garantito agli extracomunitari dalla legge, anche una veloce identificazione e il relativo smistamento.

È stato durante una rissa, infatti, che i Rangers hanno rinvenuto tra gli oggetti custoditi accanto ai letti due coltellacci da cucina, non provenienti dal Centro Com e sicuramente recuperati all’esterno; e hanno riportato in sede alcune donne che tentavano la strada della prostituzione.

Questi volontari svolgono da quaranta giorni, con le poche risorse messe a disposizione dalla solidarietà bianchese, un eccellente lavoro di cura e sorveglianza, ma necessitano di un serio sostegno da parte delle forze dell’ordine, e di una migliore gestione delle risorse da parte dell’amministrazione di Bianco; che si rese disponibile al prefetto per la prima accoglienza, ma che non fa abbastanza per tutelare volontari, profughi e cittadini.

Gli "artigiani" di Zervò: delicati fiori degli abissi

«Forse Alfredo non aveva mai sognato in vita sua. O, perlomeno, aveva già smesso talmente da tanto tempo di farlo che, a diciott’anni di età, non se ne ricordava neanche più…», queste le parole del libro Proposte di vita, di Don Pierino Gelmini, il prete che nel 1979 ha dato vita alla “Comunità Incontro”.

Ben 160 i centri residenziali aperti in questi anni in tutto il mondo, e cinquemila i giovani ospitati dalle comunità. Come Alfredo, quasi trent’anni prima, anche loro, oggi, lottano al confine tra la vita e la morte, contro il mostro bianco. Lottano per ricominciare a sognare. Questi fragili “fiori di mare”, che anche a Zervò, nel cuore d’Aspromonte, anelano il sole, hanno molto da insegnare. Alla comunità, in una nevosa mattina di fine febbraio, ci finiamo davvero per caso. E, nonostante lo stupore per la visita improvvisa, ci accoglie cordialissimo Antonio Farinella, il coordinatore dei centri per la Calabria. Ci mostra le strutture della comunità, la sala mensa col camino, i laboratori di artigianato, le serre, il famoso giardino zoologico, incluso nel parco nazionale. Sbalorditiva è la cura di ogni dettaglio, cervi e pavoni non possono neanche immaginare in che meravigliosa opera di falegnameria dimorano. «Nel momento in cui un ragazzo si trova nel mondo della droga – spiega Farinella - perde ogni suo valore. Ha la necessità di recuperare il senso della vita e del lavoro, questo spiega l’impegno che riversa in ogni opera, da quella più umile alla più prestigiosa. L’obiettivo finale della nostra comunità è il recupero del senso di famiglia». Ragazzi che amano ciò che noi neanche più vediamo. Don Pierino insegna loro che “gli alberi sono vicini al cielo, conoscono più cose di noi, e ci parlano se sappiamo ascoltarli…” ma, le foreste di faggeti e pini, ricoperte di neve, sono mute quando osserviamo sconsolati i cellulari senza linea. Giovani attenti anche alle stagioni, al trascorrere delle ore, a tutto quel tempo che strappano con caparbietà al loro stesso male: «Gli odori della terra bagnata d’autunno non sono gli stessi quando è primavera, così i colori del prato al mattino hanno un timbro diverso, più intenso e luminoso».

Non sono calabresi eppure riconoscono la voce dell’Aspromonte, lo amano, lo curano, lo ritraggono nei quadri, nelle sculture, nelle icone. In una stanza, su grandi tavoli, sta esposta l’intima natura della Calabria. Oggetti provenienti dal laboratorio di falegnameria, altri forgiati dai fabbri, modellini di creta, tegole decorate con figure tradizionali, posacenere e piattini dai verdi cactus, calabriselle sorridenti con profondi occhi neri. Ciò che, per noi, è solo il passato di questa terra per loro è presente, di più, è speranza. «Voi vi stupite – precisa Farinella – e lo stupore vi allontana dal mondo dei tossicodipendenti. Quando, per tanti anni, si cammina fianco a fianco alla morte, lo stupore diviene meraviglia. E, la meraviglia, non sta nella bellezza di un oggetto, nella sua immagine finale, ma nella gioia di crearlo. Perché è importante? Perché il lavoro insegna che è possibile, mediante un cammino paziente e graduale, concretizzare un disegno mentale, un sogno, raggiungere la luce alla fine del tunnel». I gesti lenti e antichi dei fabbri, che lavorano il ferro, è quanto di più bello, gli ospiti della comunità, abbiano strappato al tempo. Eccola, la voce dell’Aspromonte: il battito armonioso del martello sull’incudine, scalpelli e serre chiassosi nella falegnameria, mentre “u chianozzu” scivola sulle lunghe tavole di legno grezzo. Precisa Farinella: «Oggetti che, nonostante il valore artistico, non vengono venduti. Servono a crescere, a capire che “se tu vuoi lo puoi fare”». Don Pierino conobbe Alfredo ventisette anni fa e capì all’istante. Alfredo oggi è un uomo che ha realizzato i suoi sogni e che aiuta i giovani a diventare uomini, e a sognare: «Ci sono dei fiori che crescono negli abissi marini, che nessuno coglie e nessuno vede ma sono fiori».

L'Aspromonte nel racconto dell'imprenditore Paolo Canale

“In principio non esisteva nulla, solo un’immensa distesa di acqua. Qui si incontrarono i due Creatori, Tepeu e Gucumatz, e capirono che era giunto il momento di creare il mondo. I primi tentativi furono vani: l’uomo di fango era molliccio, balbettava, non aveva intelligenza e non adorava i Creatori. Al primo temporale divenne un essere informehttp://www.inaspromonte.it/wp-includes/js/tinymce/skins/wordpress/images/more.png); background-attachment: scroll; background-color: transparent; background-position: 50% 50%; background-repeat: no-repeat repeat;">; neanche i successivi uomini di legno adoravano i Creatori, così morirono tutti per colpa del diluvio scatenato da Tepeu e Gucumatz. Rimase soltanto, lontano, un campo di mais…”!

Pensieri stanchi e troppa gente attorno mentre stringo al petto il giubbino. Poi un inaspettato raggio di sole riscalda questa grigia domenica di fine settembre. L’Aspromonte, vestito d’autunno, osserva il mio silenzio. Socchiudo gli occhi per risentire la voce di mio padre e mi giunge un fresco e acre profumo di bergamotti, lontano almeno cinquant’anni. Un passo, poi l’altro, e mi avvicino. Lui è lì, le sue braccia cercano tra i rami gli agrumi. L’Aspromonte, ora, racconta di sé: “quando la giovane apprese della disgrazia andò in cerca dei semi di mais affinché il suo popolo cessasse di soffrire la fame. Camminò diversi giorni finché una notte, stanca, si fermò su una roccia e si addormentò nella foresta. Al suo risveglio si accorse di essere nella grotta del signor Murcielager. Le disse di non disperare e di tornare al villaggio e, al momento della semina, di togliersi i denti e seminarli. La fanciulla, per amore del suo popolo, fece quello che le era stato detto e tutti si misero al lavoro. Il tempo passò e quando il mais cominciò a dare i suoi frutti, con meraviglia, si accorsero che i grani della pannocchia erano bianchi e brillanti come i denti di una donna. Il mais bianco era il regalo fatto dagli dei alla gente di Pipiles”.

Le prime luci dell’alba scoprono accatastate ai piedi degli alberi numerose cassette. Il lavoro di raccolta inizia alle due di notte. E il gallo canta, la prima, la seconda, la terza volta. Poi, di corsa al mercato reggino. Che meraviglia quei frutti dorati, mio padre li osserva orgoglioso poi cerca me sui campi. I fichi d’india mi nascondono dal suo sguardo quasi come io nascondo a lui il desiderio di andar via. “L’Opuntia ficus-indica fu pianta sacra e fondativa dell’Impero azteco. Gli Aztechi la chiamavano Nopalli. Una pianta estremamente generosa che cresce ovunque, sulle rocce, sulle tegole e sopporta la sete”. Ancora vento ad accarezzare i campi di peperoncino, la fragranza della mia infanzia svanisce e torno solo. Un passo, l’altro, non so perché amo questa terra. Forse perché ci sono cresciuti i miei figli, forse perché ci sono cresciuto io, forse perché qua il tempo non è mai passato. Ho una sola certezza, che questa terra ama me, e le smisurate piantagioni si lasciano asciugare dalla brina: “la sostanza indiavolata giunse in Europa sulle caravelle di Colombo provenienti dal Nuovo Mondo. Il primo ad assaggiarlo fu il medico di bordo. Ne rimase così entusiasta da costringere la ciurma a mangiarlo triturato sulla carne secca. Per spegnere l’incendio divampato nelle loro bocche i marinai avevano usato fiumi di vino ed erano finiti ubriachi fradici a cantarne lo lodi”.

Sul sentiero tracciato dagli alberi di ulivo trovo un po’ di ombra. Qualche goccia di pioggia cade a dispetto del sole. Abbasso sulla fronte la visiera del cappellino e mi riparo da entrambi. Mi ripara anche dai miei pensieri. Il carretto trainato dai cavalli fa ora rotta verso Reggio, papà mi insegna molte cose e mi indica per la strada ciò che devo osservare. Quando resto solo con lui, e lui è tutto per me, mi sento fiero, non voglio deluderlo, forse per questo le domande che ho nel cuore ci restano silenziose. E continuo solo ad imparare: “la cultura dell' olio di oliva è giunta sino a noi, attraverso il Medioevo,  per opera dei Benedettini e dei Cistercensi. I Benedettini, devoti al credo della preghiera e del lavoro, persuadevano contadini ed operai agricoli a non abbandonare le terre. Il grande animatore dei Cistercensi fu Bernardo Chiaravalle. I suoi monaci insegnarono ai contadini, delusi dallo stato di semischiavitù in cui si trovavano, a dissodare i campi, a piantare colture da reddito, a rendersi indipendenti come fattori di produzione. I Cistercensi furono lavoratori instancabili soprattutto nei campi; anelavano, infatti, ad un ritorno ai tempi evangelici e ad una vita più dignitosa anche se più severa. Non si videro forse mai tanti oliveti e vigne come dal Mille al Quattrocento”.

Mille disegni di piante diverse, sistemate in fila rigorose o in qualche angolo nascosto e  pericoloso, imponenti tronchi sovrastati da cime verdeggianti, allegri ciuffi gialli. In questa armonia ritrovo la strada, la mia strada, un passo, poi l’altro. Ed io che volevo solo scappare. Mio padre guarda i fichi d’india… da troppo tempo ormai. Non so se, alla fine, ha mai saputo che sarei rimasto sempre qui ma, mentre metto in moto il fuoristrada, risento la fragranza di bergamotto, forse un sogno o suggestione. Ed è dolce, così come la serenità che provo. In magazzino aspettano tutti Paolo Canale. Ci vorrà poco per rientrare. Seconda. Terza. E sorrido divertito mentre ripenso… ai cavalli!

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