La riflessione. Il mondo in carrozza
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Amo viaggiare in treno. Penso che questo mio amore si radichi nel passato. Quando da ragazzo al mattino presto, anzi prestissimo, era ancora buio, partivo dalla stazione di Palizzi marina: direzione Messina.
Ricordo che il treno, dai sedili in legno, diciamo, diversamente comodi, arrivava direttamente nella città peloritana, ospitato dal caldo ventre della nave. Ricordo ancora, come fosse ieri, che arrivato a Messina venivo rapito da quel turbinio di gente, di voci, di colori ben distanti dalla quiete del mio paesello. Che era, e rimane, indimenticato.
Il treno è la vera dimensione del viaggio e dell’incontro. E ritengo che nel treno non viaggino solo persone, ma comodamente sedute riposano le loro storie, pronte ad essere immaginate. Mentre scrivo, estemporaneamente, sono in una carrozza dove vi è un mondo, il mondo. Un indiano, un marocchino, una famiglia rumena, due studenti, ed io. La tratta è breve, ma non abbastanza per impedirmi di immaginare le storie viaggianti. L’amico marocchino sconvolto dalla fatica rientra a casa, che non è la sua casa. Provo ad immaginare, anzi a sperare, che ad attenderlo ci sia la sua Fatima. Concedetemi questo luogo comune. L’ultimo per oggi. Forse lo attenderanno altri fratelli. Infondo, confido in Fatima. La famiglia rumena almeno è unita, pur nella distanza dal luogo natio, e mi sembra di vederla combattere silenziosa contro il pregiudizio che li vede tutti ladri e disonesti.
Quanto sembrano distanti le valigie di cartone. Abbiamo dimenticato le nostre valigie di cartone… L’indiano, elegante e regale, con animo di guru regge la fatica meglio del fratello africano, ma nei suoi occhi alberga la nostalgia della sua terra. Negli studenti sento i contrasti tipici della loro età. Non vorrebbero trovarsi lì, ma in un futuro lontano, dove l’incertezza è scesa alla stazione precedente. Sono immersi nelle loro cuffie ad ascoltare il loro mondo, che è in fondo quello che gli abbiamo lasciato. Mi viene da chiedergli scusa. Non lo faccio, lo penso. E tanto mi basta.
Che pensieri strani vengono in treno. Viaggiando in un breve tratto, in compagnia della mia storia, e di quelle altrui. Poi d’improvviso un suono di tamburello ed organetto. Riprodotto. Una suoneria di cellulare. L’amico africano risponde nella sua lingua e stacca così il suono familiare. Parla forse a Fatima, o almeno così spero. Arrivo, scendo, e saluto con la mano la mia carrozza che prosegue verso la linea ionica. Saluto le storie viaggianti che mi guardano stupite. Quello strano calabrese che – non lo sapranno mai – si è nutrito delle loro vite inventate.