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Antonella Italiano

Antonella Italiano

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L'editoriale. Da lassù, si vedeva il mare

Dalla montagna si guardava al mare, e ci stupiva quella fila di luci interminabili che ne disegnavano il profilo. Non una verso l’interno, come se una volontà ben definita evitasse di mischiare i vantaggi acquisiti sulla costa, con gli svantaggi della vita nell’entroterra.

Eppure, tra fango, mosche e strade dissestate, seduti su un picco o sotto alberi addormentati, ci sentivamo veri, oltre che liberi, ritrovati, se pure mai persi. Con la terra a colorare i vestiti, e i piedi in torrenti ghiacciati su strati melmosi di muschio e limo, e il pane mangiato a mani sporche, e l’acqua bevuta da sorgenti pietrose, e la frutta il più della volte “toccata”, non ci siamo sentiti mai sporchi, piuttosto in simbiosi.

È una vita dura, quella montana, condivisa con gente reale, dall’aspetto trascurato, la parola semplice, il pensiero pratico e il cuore immenso.

All’ospedale di Locri ci entriamo a occhi bassi, un modo per non invadere lo spazio dei pazienti -pensiamo -, un modo per non essere investiti dal loro dolore, in realtà. E da ogni finestra si vede il mare, e quella fila di luci interminabili che disegnano ora più chiaramente le città. Ed è come essere su un picco, o sotto un albero addormentato, tant’è grande la distanza tra questo mondo e quello usuale. Un via vai di parenti ad ogni reparto, le cui vite viaggiano ad altre velocità rispetto a chi, qui, deve restare; un via vai di medici e infermieri, che guardano troppo spesso l’orologio. Eppure tra flebo, siringhe, e tristissimi bagni, la verità sembra essere tra queste lenzuola in queste stanze tutte uguali, sui comodini che riassumono la gente, nascosta in storie incredibili di coraggio e sofferenza insieme.

Rocco è un omone alto, dalle spalle larghe, con una pancia coperta a stento dalla maglia del pigiama, avrà circa sessant’anni e due occhi grandi e azzurri. Parla di stalle, terreni e uliveti, del trappito e della macelleria, e tutto il giorno ripassa le cose da fare immediatamente dopo il rientro. Ha la lingua semplice dei montanari, una tasca piena di monete, qualche pacco di sigarette, e aspetta con ansia che il caos del pomeriggio sia finito, che i suoi parenti siano rientrati, e che noi sediamo all’ingresso del reparto, come al solito, per smorzare l’angoscia della stanza; come se quel distributore, in cui si ostina a offrirci il caffè, e quei due balconi sempre aperti siano un contatto necessario con la vita.

Ci fa piacere incontrarlo, perché ha innato quel fare teatrale e spiritoso che sa di farsa e di feste di piazza, e tra una bevanda e l’altra, senza mai smettere di fumare, ci racconta la sua storia, tutte le sere, che è drammatica e farebbe piangere, se non fosse per quei dettagli sempre diversi che tira fuori all’improvviso. E allora ridiamo, senza pudore, ridiamo del dolore e della morte, comprendiamo il valore della speranza e la grandezza dell’umanità, della personalità, della dignità, per nulla scalfite da un pigiama, da un catetere, da un letto.

Rocco ha rischiato di morire per una setticemia, ha passato 15 giorni in rianimazione, poi un mese in medicina, poi in altri reparti fin quando i mesi sono diventati sei. «Mi hanno portato tanti di quei vassoi di pasticcini a casa che, credetemi, mia moglie avrebbe potuto costruire un’armacera», e non è meno incisivo quando, piegato dall’infezione che gli fece salire la febbre a 42, racconta dei suoi paesani che invasero l’ospedale di Locri «Davanti alla porta del reparto c’erano tutti. Tutti. Il primario non sapeva cosa fare, alla fine decise di farli entrare a gruppi di venti. Io ero sofferente in quel momento, e tutti mi volevano incoraggiare». Ed ha le lacrime quando ripensa all’affetto della sua gente, a cui lui non ha mai negato aiuto o attenzione: l’amore, quando si dà, torna. Così, quando non lo troviamo più nel letto, capiamo che quella dimissione così attesa è arrivata, e sorridiamo per l’ultima volta immaginandolo libero nella sua campagna piantata ad ulivi. È una vita difficile qui all’ospedale di Locri, dove ogni giorno si attende la visita e la parola di un medico, dove passano persone straordinarie che purtroppo sembrano lasciare indifferenti, dove la visione del mare da ogni finestra ricorda quella frenesia che qui perde qualche certezza, dove anche il pensiero più profondo lascia il posto alla semplicità di una richiesta d’aiuto, dove ci si veste della volontà di tenere alta la testa nel percorso tra il letto e il bagno, attraverso il corridoio, dove si deve dimostrare forza, coraggio, pazienza, ora dopo ora, ora dopo ora.

E dove si attende – troppo – persino l’assistenza più scontata.

Fango, potere, ignoranza: la "terna" che ci governa

È tutto grigio attorno, e il mare, le strade, le case hanno il colore del fango. Un umido agghiacciante, che arriva fin dentro le ossa; e più si aggiusta più si rompe, più si spazza più si sporca. Senza soluzione.

I simboli della nostra infanzia hanno ceduto alla forza della natura e alla volontà degli uomini; e mentre la piccola stampa aspetta il morto, “l’angelo che dalla melma voli verso il cielo a rappresentare la miseria del popolo”, quella nazionale direttamente ci snobba.

E come potrebbe raggiungerci del resto? Solo un “pazzo” del Tg3 regionale si è avventurato ieri sulla Sgc, viaggiando da Gioia Tauro a Bianco in pieno maltempo, per realizzare il suo buon servizio.

Mi ha fatto tenerezza, così tutto inzuppato accanto al capo della Protezione civile, perché egli è il simbolo del calabrese che deve rendere dieci volte più degli altri per emergere in un mondo di potere e raccomandazioni.

Ma il problema non è Ieri, e non è Oggi, il problema (concedetemi il luogo comune) è Domani.

Il problema sarà come uscire da questa fossa che abbiamo scavato da soli, spalata dopo spalata: la protesta per la costruzione della Bovalino-Bagnara, la protesta per la costruzione della nuova 106, la protesta per le Tav e per ogni forma di evoluzione si sia avvicinata alla nostra terra.

Battaglie guidate e strumentalizzate dall’interesse del paese di turno, naturalmente, che mirava a bloccare le vie di comunicazione per fagocitare le realtà limitrofe e dirottarle nel suo giro economico. Roba di qualche migliaio di euro, in realtà, almeno ora che i grandi traffici sono finiti, ma sufficiente per imbastire teatrini e stendere tappeti rossi, cercando di far leva sul famigerato “impatto ambientale” a commuovere il nostro cuore di naturalisti, da un lato, e annebbiarci la vista, dall’altro.

Nel frattempo non ci siamo mai battuti, non ci siamo mai spesi, per migliorare le infrastrutture già esistenti. Il nostro interlocutore avrebbe dovuto essere il Governo, non lo scenografo di turno; ma appagati da inutili confronti con inutili realtà paesane, sfinendoci in improduttive discussioni intestine, abbiamo fatto il gioco dei veri potenti, alzando la voce solo per chiedere le luminarie d’estate, le sagre d’inverno, le feste patronali e “permessini” vari.

Questo abbiamo preteso dai nostri sindaci e dai nostri politici.

Questo continuiamo a chiedere e per questo continueremo a venderci. Nonostante… oggi.

Mi chiedo, e finisco, come è possibile che proprio i comuni di Africo, Bianco, Bovalino, Casignana, San Luca, Samo, Platì, Ardore, Melito, Palizzi, per anni commissariati, si siano presentati dinnanzi all’emergenza senza vestiti adeguati.

Forse i rappresentanti prefettizi dello stato, che non sperperano e non concedono, perché la Legge non spreca in Vizio, non hanno ritenuto necessario spendersi per migliorare le infrastrutture?

Dove sono oggi le loro raffinate competenze? Le loro altisonanti conoscenze? L’amore per la missione di “risanamento di un territorio”?

Ma la domanda è più semplice: dove sono i commissari?

E poi mi chiedo, e finisco sul serio, che cosa sta accadendo proprio in questo momento alle numerose discariche che ci avvelenano e che giacciono incustodite (e ben nascoste) proprio a due passi dalla Statale 106?

Cosa accade a Casignana che, non molto tempo fa, lamentava la rottura di una vasca di contenimento? E dove scorre, ora, il percolato?

Che il popolo si faccia forza, lui che conosce la strada, lui che si trascina e si risolleva, guidato da Dio e dalla forza delle sue sole braccia, da alluvione ad alluvione, con un’unica differenza storica: un tempo, dinnanzi ai cataclismi, la gente correva tutta a rifugiarsi in chiesa. Oggi, per fortuna, le abitudini sono cambiate o molti bovalinesi ci avrebbero rimesso le penne…

Africo, la storia dell'anarchico Rocco Palamara

Rocco rappresenta una parte di storia importante per Africo e per la provincia. Le sofferenze passate da ragazzo, il grande coraggio che lo portarono ad affrontare a viso aperto ogni situazione, ne fanno oggi un emblema per uomini e ragazzi. Rocco ha dato tutto per il suo ideale, persino la vita è sempre stata per lui una carta da giocare: tra chi avrebbe voluto strappargliela, per sentirsi “uomo”, e la Legge, che avrebbe voluto zittirlo chiudendolo in una prigione.

Allora Rocco, gli anarchici di Reggio… e gli anarchici di Africo?

Tra le vicende dei compagni di Reggio e le nostre ci furono molte analogie ma anche tante differenze, peculiari delle nostre rispettive comunità: reggine le loro e africote le nostre. Noi, se è passabile il termine, eravamo degli eretici anche tra gli anarchici ai quali io per primo mi accostai da autodidatta. Sognavamo un mondo di bellezza e di giustizia in base alle massime aspirazioni teoriche dell’anarchia, ma conciliandole nei comportamenti di ogni giorno con le regole del paese senza rotture traumatiche né con i nostri padri né con talune delle tradizioni. Ci piacevano (e davamo importanza anche politica in quanto forma di resistenza alla cultura borghese) il discorrere in poesiata, il ballo della tarantella e le canzoni calabresi. Dei Beatles – icona di tutta la beat generation – ci piacevano solo le versioni in italiano in quanto delle altre non capivamo le parole. Con la praticità che ci caratterizzava non restammo a contemplare le differenze ideologiche tra i “rivoluzionari”, associandoci, nella primavera del 1970, ad altri ragazzi di tendenze marxiste con i quali ci riunivamo tre volte alla settimana in una sede comune, detta circolo, frequentata anche da parecchie decine di ragazzini piccoli che venivano col consenso dei genitori.

Parlami dell’Africo di quel tempo.

Africo era un paese molto particolare, che racchiudeva in sé tutto il vecchio mondo della montagna, ma proiettato decisamente verso il nuovo. Il paese passava il periodo migliore della sua storia: terminata la vita nelle baracche dei campi profughi, tutti avevamo finalmente una casa vera; con i proventi degli emigrati c’era un livello di vita mai visto e i ragazzi in età frequentavano al 90% le scuole superiori. Da che – meno di 20 anni prima – nei nostri vecchi paesi, Africo e Casalinuovo, avevamo per scuole solo due piccole stalle, di lì a poco gli “africoti” avrebbero primeggiato da ogni punto di vista nell’Università di Messina. Già vincitori sull’antica miseria le aspettative sul futuro erano luminose. Con lo spirito guerriero che ci caratterizzava, sentivamo di poter travolgere qualunque ostacolo e per le cose che ancora mancavano al paese (lavoro, stazione, ecc.) facevamo frequenti scioperi che vivevamo come feste popolari bloccando, se era il caso, i treni e la Statale 106, oppure marciavamo su Reggio e la Prefettura. Ci beccammo per questo centinaia di denunce senza che con ciò venisse meno la fiducia in noi stessi e il nostro senso di invincibilità. L’esperienza in siffatte cose e l’impegno politico, seppure terra terra, era un patrimonio morale formidabile e un primato nella lotta per i diritti riconosciuto da tutti. Fino ai fatti di Praga del 1968, la maggior parte dei ragazzi avevamo la tessera del Fgci (anche io da anarchico, per non staccarmi dagli altri) e quando, proprio per discutere dell’accaduto venne indetta a Reggio una riunione provinciale, noi da soli eravamo metà dell’intera assemblea. Passati alla votazione sul pro o contro l’intervento dei carri armati russi, noi altri votammo per la condanna, e fu quella la mozione che passò. Subito dopo lasciammo tutti quel partito e fondammo il circolo rivoluzionario con simpatie maoiste. Nel 1970 non c’era più ad Africo neanche un iscritto alla Fgci e solo qualche sparuto maoista. Gli altri componenti del vecchio circolo rivoluzionario erano quasi tutti emigrati o sul punto di prendere moglie e per cui fui quasi il solo dei “vecchi” a frequentare il nuovo circolo. La circostanza mi diede agio di essere ascoltato e seguito in una impresa inaudita. Quella cioè di attaccare frontalmente la ‘ndrangheta in un momento cruciale e di transizione verso lidi maggiormente criminali. La locale di Africo, che prima era tutta composta da comunisti dichiarati, negli ultimi tempi si era divisa e una parte di essa si era legata a un noto personaggio del sottogoverno democristiano, montando nel contempo di tracotanza e aggressività persino contro gli altri ‘ndranghetisti.

Africo e ‘ndrangheta: quasi un sinonimo…

La nomea era (ed è) proprio quella, ma in quel decennio d’oro che furono gli anni ’60, Africo era tutt’altro che un paese con aspirazioni mafiose. Dall’inizio del decennio i padri di famiglia, compresi quelli ‘ndranghetisti, cominciarono a mandare i figli a scuola ritenuta l’antitesi della ‘ndrangheta considerata a sua volta un retaggio della vecchia vita agropastorale senza più futuro nella modernità. La si dava per spacciata in quello che era uno dei suoi santuari (Africo); mai pensando che di li a poco sarebbe stato proprio lo Stato a sollevare le sorti dei mafiosi! Per molti anni la minore di Africo soffrì di sott’organico. Calarono i picciotti ma non l’usanza tutta africota – specie tra i giovani – di mantenersi un’arma a portata di mano; più che altro pistole, buone da nascondere e anche, per certuni, da portare addosso nella più normale banalità. L’usanza era coltivata a prescindere dell’appartenenza alla ‘ndrangheta; e da tanti anzi proprio per tenere testa ai malandrini. Quando l’aria cominciò a galvanizzarsi anche io presi a circolare armato. Nei discorsi del circolo si diceva il peggio possibile degli ‘ndranghetisti rifarditi, ma appena si presentò l’occasione li attaccammo apertamente e pubblicamente sulla gestione del Comune, con manifesti che affiggemmo in pieno giorno. Per risposta, quella stessa notte i picciotti stracciarono tutti i manifesti e ci bruciarono la porta del circolo. Accadde nei primi di settembre 1970, quasi in concomitanza con la tragedia dei compagni di Reggio. Pochi giorni dopo, la sera dell’11 ottobre, ritornarono nuovamente alla carica, stavolta di persona con tre noti picciotti che vennero al circolo tentando di entrare. Non riuscendo ad intimidirci, cercarono di rifarsi più tardi con me ed altri incontrandoci per strada. Stavolta finì con una scazzottata, ma non era ancora finita: poco più tardi scattò anche la spedizione punitiva. Riprendendo la via di casa, strada facendo incontrai mio cugino Salvatore Palamara di 16 anni al quale cominciai a raccontare dell’accaduto. Facemmo appena in tempo ad arrivare sull’uscio di casa mia e sederci sui gradini per finire il discorso, quando vedemmo emergere dal buio una filata di picciotti che arrivarono di corsa per darmi una “lezione”. Il primo mi si gettò addosso; il secondo ci tirò delle pietre (ma senza colpirci) e un terzo, appena giunto estrasse la pistola e cominciò a sparare alle gambe di mio cugino centrandolo con tre colpi. Un proiettile ruppe lo scalino e un altro forò la porta di casa mia; ma a quel punto anche io estrassi la pistola che avevo nella tasca, e rispondendo al fuoco colpii due degli aggressori e feci scappare anche quelli in arrivo. Tutto accadde in pochi attimi e quando mi girai alle mie spalle vidi un altro ragazzo che si lamentava perché colpito da un dei colpi indirizzati a me. Si finì così con quattro feriti, due dei quali in punti vitali; e fu già tanto che non andò peggio. Appena un mese dopo, mentre camminavo per le vie del paese, in pieno giorno e in mezzo a due amici, uno di quelli che avevo ferito mi si accostò alle spalle sparandomi una raffica di pistolettate. Lo intravidi però in tempo per gettarmi di lato schivando i colpi, e anche quella seconda volta me la cavai senza ferite.

E i carabinieri che ci stavano a fare?

I carabinieri, come compresi successivamente, erano informati di ogni cosa ma ciò nonostante passarono false notizie al giornale Gazzetta del Sud che in due articoli consecutivi sostenne trattarsi di uno scontro tra gruppi di malavitosi per la supremazia su Africo (nientemeno!). Seppi dopo che il brigadiere (Antonello Lenza) se la intendeva con certi boss ‘ndranghetisti. Non potendo lasciare che passasse quella versione tesa a screditarci e a colpirci meglio in altra fase, andai in caserma e feci mettere a verbale, non solo come erano andati i fatti ma dell’intero gioco mafioso che aleggiava su Africo. Nel farlo dovetti anche autodenunciarmi per aver sparato anch’io, ma con la quasi certezza che mi sarebbe stata riconosciuta la legittima difesa. Venuto il loro turno, i magistrati di Locri prima lasciarono correre come se non sapessero niente e poi, dopo la seconda aggressione, si decisero a spiccare i mandati di cattura, ma a me per primo! Non bastasse, quando vennero a prendermi si presentarono con un mandato di cattura anche per mio fratello Bruno di 17 anni. Prima di portarci al carcere di Locri, ci condussero in caserma dove avemmo l tristissima sorpresa di trovare là persino mio cugino Salvatore: arrestato anche lui di solo 16 anni, studente modello e ancora ingessato per le pistolettate ricevute. Io fui accusato di rissa aggravata e tentato omicidio, e mio fratello e mio cugino per avere, con la loro semplice presenza (!) “… appoggiato la volontà omicida dello sparatore” ( ma mio fratello neanche c’era). Di tanto artificio giuridico fu autore il pm Guido Neri che anni dopo sarà lui stesso arrestato perché attiguo alle cosche. Tanto bastò comunque a tenere in carcere anche loro per tutti i 18 mesi fino al processo dove vennero assolti e finalmente scarcerati.

Assurdo! Ma la società civile; i partiti di sinistra? 

Non so che intendi per “società civile”, se tra questi ci metti i preti lasciamo stare che mi scappa da ridere; per i partiti e in specie il P.C.I. ci sarebbe invece da piangere perché proprio a quel partito era affidata dalla gente ogni traguardo di civiltà. Delusero invece tutte le aspettative. A noi ci lasciarono marcire in galera senza muovere un dito; così come – nella sostanza – non fecero nulla per arginare il potere  mafioso.

Altri però non vi lasciarono soli …

Avemmo l’appoggio di tutto il movimento del ‘68. Giornali come Lotta Continua, Il Manifesto, Servire il Popolo e Umanità Nova ci sostennero moralmente con i loro articoli, mentre il soccorso rosso provvide per gli avvocati. Ma la cosa più importante per noi fu il fatto che proprio intorno alla nostra vicenda sorse un grande il movimento giovanile degli studenti dell’intera Locride. Una mattina, mentre con mio cugino e mio fratello passeggiavamo nel cortile per l’ora d’aria, dal muro di cinta ci chiamò la guardia per dirci che la fuori dalla porta del carcere c’erano più di mille studenti che reclamavano la nostra liberazione. Era il 30 aprile 1971 e quella – credo – fu la prima manifestazione antimafia in assoluto. Con una trentina d’anni di anticipo dai famosi ragazzi di Locri.

Dei ragazzi “di Locri” di allora però nessuno dice nulla.

É che nessun partito può metterci sopra il suo cappello; ne conviene alle varie “antimafie” istituzionalizzate riportare a galla fatti in cui le istituzioni medesime avrebbero da che vergognarsi. Quando finalmente,il 3 maggio 1972, si aprì il nostro processo, molti studenti disertarono ancora una volta le lezioni e vennero a sostenerci davanti al tribunale di Locri. Nella piazza antistante si improvvisò un comizio e fu allora che i carabinieri, schierati in gran forze, caricarono e manganellarono chiunque gli capitasse a tiro. E ne arrestarono anche sei o sette di quei ragazzi meravigliosi!

Incredibile! Sembra però che su quei fatti anche gli scrittori di cose di ‘ndrangheta soffrano di amnesie. Quali le altre verità nascoste a tuo parere?

Quelle sul ruolo nefasto di moltissimi inquirenti e magistrati che, invece di combatterli, favorirono i boss nella loro conquista mafiosa della Calabria. Nelle vicende vissute di persona, e di cui faccio testimonianza, noi – da antimafiosi dichiarati – fummo tenuti costantemente sotto tiro dai carabinieri con perquisizioni e angherie varie. Applicarono a noi le misure di pubblica sicurezza preposti per i mafiosi, diffidando formalmente sia me che due miei fratelli, come anche nostra madre. I magistrati del Tribunale di Locri fecero di tutto per incarcerarci e tenerci dentro; mentre non processarono neanche uno di quelli che dopo il primo fatto ci colpirono ancora in diversi attentati, in uno dei quali, nel 1975, venni ferito gravemente alle gambe a fucilate e insieme anche a due malcapitati studenti. Per il fatto più grave, che fu l’uccisione di mio cognato Salvatore Barbagallo, ucciso sull’uscio di casa mia la notte di fine anno 1976, fecero in modo che l’assassinio restasse impunito; ma appena un noto fascista di Bruzzano disse che degli sconosciuti gli avevano gettato benzina sulla sua macchina ( senza incendiarla) e di sospettare due dei miei fratelli (Bruno e Gianni) i giudici si affrettarono a spiccargli il mandato di cattura quali esecutori del presunto attentato incendiario. E quando i miei fratelli dimostrarono di trovarsi in Piemonte già da un mese, il giudice – lungi dallo scoraggiarsi – cambiò l’accusa e li tramutò in “mandanti”. Costretti infine ad andarcene dalla Calabria con tutta la famiglia, fu nella nostra nuova casa presso Roma che apprendemmo del processo, svolto a nostra insaputa, sul (non) fatto di Bruzzano; e della condanna per entrambi i dei miei fratelli a ben 5 anni di galera! Fortuna che poi sopravvenne l’amnistia. E questo fu il massimo della giustizia che avemmo noi Palamara dallo “screditato” Tribunale.

Discarica Casignana. Bianco ottiene una nuova ordinanza: arriva il Prefetto, si indaga su Arpacal

Nonostante le disposizioni urgenti emesse dal Tar il 9 novembre 2015, i lavori di messa in sicurezza alla discarica di Casignana sono iniziati con ritardo, hanno proceduto male, e non hanno allontanato il rischio di inquinamento ambientale. 

Nonostante le confortanti dichiarazioni del governatore Oliverio, elargite senza parsimonia in conferenza stampa a Locri il 16 novembre 2015, questi lavori portano il nome di “Messa in sicurezza per ampliamento”, il che stride non poco con «A Casignana non arriverà più neanche un chilo di rifiuti».

Nonostante la discarica abbia dato evidenti prove di instabilità, tanto da farne scaturite il sequestro preventive il 13 ottobre 2015, sulle Linee guida per la rimodulazione del Piano regionale di gestione dei rifiuti della Regione Calabria, approvate il 21 ottobre (otto giorni dopo) con delibera di giunta regionale numero 407, a Casignana è stata stimata una capacità residuale di 200mila metri cubi di rifiuti.

Delibera poi passata dalla Quarta commissione, proprio questo 25 novembre, con “parere favorevole”.

Andiamo oltre.

Nonostante tutti, è sempre (e solo) il comune di Bianco, rappresentato dall’avvocato Ferdinando Parisi, a chiedere e ottenere dei provvedimenti concreti sul sito.

La grande vittoria di ieri è la nomina come Commissario ad acta del Prefetto di Reggio Calabria, il che fa sperare che il fetore dei rifiuti venga spazzato via (finalmente) dal vento fresco della giustizia. Altra grande vittoria sarà la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Locri, che si esprimerà sul cattivo operato di Arpacal.

Queste le dichiarazioni dell’avvocato Parisi: «Probabilmente è stata messa la parola fine alla questione della messa in sicurezza della bomba ecologia che sovrasta il nostro territorio, considerato che fino ad oggi, nonostante gli obblighi sanciti dai provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, le autorità preposte non hanno provveduto a realizzare le opere necessarie ad eliminare la grave situazione di pericolo. A seguito dell’udienza di ieri dinanzi al Tar di Reggio Calabria, in accoglimento delle mie istanze quale Legale del comune di Bianco, il Giudice amministrativo ha emesso nuova Ordinanza cautelare con la quale ha ribadito la necessità ed urgenza dell’immediata messa in sicurezza del sito della discarica di Casignana. Considerata l’inadempienza da parte di Arpacal a seguito dei provvedimenti emessi in precedenza, il Tar ha nominato Commissario ad acta il Prefetto di Reggio Calabria. Ha disposto, inoltre, la trasmissione degli atti di causa alla Procura della Repubblica di Locri al fine di valutare la sussistenza di eventuali reati. I lavori dovrebbero, quindi, iniziare al più presto con la garanzia dell’autorevolezza di S.E. il Prefetto».

 

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