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Antonella Italiano

Antonella Italiano

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L’intervista. Angelo detto "Il Bonzo" e l'anarchia reggina

L’anarchismo? Ci arrivai che ero un giovane studente del liceo artistico, affascinato da un libro che ne elencava i principi. Certamente c’ero già arrivato da solo, ma non ero il solo a pensare quelle cose: la lettura mi aiutò a comprendere questo. Iniziai a frequentare Angelo Casile, ad andare assieme a lui, che aveva già dei rapporti con la Fai, la Federazione anarchica italiana, a qualche riunione. Ed eravamo ancora giovanissimi, quando provammo a scrivere la nostra storia…

Un’organizzazione orizzontale: l’autogestione

Credo che la forma sociale che gli anarchici propongono sia una forma ideale che però si può realizzare. Non è utopica, perché parte del concetto che il potere non si può distruggere, ma afferma che il potere si può diluire (arrivando al potere diffuso). Passare quindi dall’organizzazione verticale, che è quella che finora ha generato il caos sociale, a un’organizzazione orizzontale. Come funziona? Un paese, come sappiamo, è composto da tante frazioni, queste frazioni nominano un gruppo di specialisti senza dargli però alcun potere decisionale; quando si fa una proposta (inerente a strade, asili, problemi di acqua, questioni collettive dunque) ogni frazione esterna, a riguardo, quello che è il suo bisogno. Ci si riunisce insieme ai tecnici e si stabilisce qual è la disponibilità di fondi per la soluzione dei problemi. Il mancante si aggiunge. I cittadini allora pagheranno le “tasse”, che non saranno più tasse ma soldi spesi per autogestirsi. E, come questa, esistono innumerevoli forme di autogestione. L’anarchismo si fonda sul rispetto dell’individualità di ognuno. E se la libertà di uno è danneggiata, allora lo è quella di tutti. Perché alla fine la libertà cos’è? È avere diritto alla scuola, avere diritto all’acqua, alla fogna, al mio pensiero. Già, soprattutto poter esprimere il mio pensiero.

Il rapporto con i comunisti

Ci sono tre tendenze dell’anarchismo. Il comunismo anarchico guarda soltanto alla parte economica: tutti contribuiamo al mucchio e tutti prendiamo in base ai nostri bisogni; io ho una gamba e produco 10 però se devo prendere 15, perché tali sono le mie esigenze, allora prendo 15. Il comunismo è questo per gli anarchici, non l’organizzazione verticale che tutti conoscono. Non è lo stalinismo. Non è il partito. Non è l’avanguardia. Altra forma di anarchismo è l’individualismo: io organizzo la mia attività economica con la mia fantasia e con i miei soldi, e tu non puoi condizionarmi in queste scelte, però ne fai parte, perché io mi rivolgo a tutti per distribuire il prodotto. Per ultimo il collettivismo, cioè quando si sceglie di fare una cooperativa e assieme si gestisce la propria economia. Queste sono le tre tendenze del movimento, però sappiamo bene che ogni fase ha il suo periodo storico, e soprattutto che si creano continuamente delle nuove esigenze.

La storia nascosta

Nell’insurrezione armata che ci è stata in Italia, dal ‘43 al ’45, il movimento anarchico (includendo nel movimento anche le individualità di pensiero) è stato grandissimo. Ad esso di sono uniti i socialisti, i comunisti, i democristiani, i cattolici; c’erano gruppi di tremila persone, come gruppi di sei persone. Ciò che non perdoniamo ai comunisti, ai democristiani, ai socialisti, è di aver nascosto le pagine di storia che raccontavano di noi. Mai è stato scritto sui libri che gli anarchici erano combattenti per la libertà durante il periodo dell’insurrezione armata. E questo perché, pur vincitori, eravamo diversi dagli altri compagni, che invece avevano una cosa in comune: sostenere l’autorità di pochi sul popolo. Gli anarchici sparirono, quindi, come movimento, pur restando come sempre accanto alla gente. Ed è una storia lunga la nostra, viva fin dall’Ottocento, e a capo tramite l’Usi, il sindacalismo rivoluzionario dove gli anarchici erano numerosi, di tutto il movimento nelle fabbriche del 1923, del 1925, del 1929.

Il fuoco di Reggio e la Baracca

A Reggio, a Campo Calabro, a Villa San Giovanni, sono sempre esistiti dei gruppi anarchici, molti membri hanno attività autonome, aziende, o sono liberi professionisti. Una grande mente fu il professore Chiellino, un anarchico individualista; quando andavamo a casa sua – all’epoca abitava ai villini svizzeri – ci apriva la porta, aiutandoci in qualsiasi modo. L’individualismo è una forma di pensiero, infatti, ma pur sempre sociale. Oggi ci riteniamo gli eredi di questi personaggi e attraverso loro riusciamo a identificare il nostro anarchismo, che è simile ma di una generazione diversa. Le riunioni alla Baracca erano riunioni aperte, c’erano i membri del Psi-up, come quelli del partito comunista. E si discuteva delle problematiche politiche, di come risolverle, ma ovviamente non si arrivava sempre a una soluzione unica perché loro ragionavano da marxisti e spesso non si trovava un accordo. Ma insieme ci recavamo nei quartieri ad analizzare le condizioni in cui viveva il popolo: a Reggio c’era chi aveva la casa con la televisione, o il macchinone, e la fogna a cielo aperto. Le grandi contraddizioni della città! E con questi reggini avevamo difficoltà a spiegarci, e loro trovavano difficoltoso ascoltarci. Quando ci fu la rivolta al Gebbione c’era un punto occupato in cui si andava per discutere e confrontarsi; però Reggio era particolare, e non c’è stata mai una grande intesa. È stato grazie ad Angelo Casile, grazie a Rian, un compagno di Campo che è morto recentemente, studenti del liceo artistico, e anche grazie ad altri giovani comunisti, che si riuscì a coinvolgere i reggini in qualche sciopero e qualche bella battaglia.

La repressione

Abbiamo contestato Berretti verdi, al cinema Margherita, un film in cui l’impero americano imponeva il suo modo di vedere le cose; abbiamo manifestato al porto di Reggio contro il passaggio delle navi americane. Avevamo circa diciotto anni, chi più chi meno, e venivamo caricati puntualmente dalle forze dell’ordine. Perché la prima azione era la repressione: reprimere qualsiasi cosa, qualsiasi evento, soprattutto le azioni che toccavano il cuore della società americana. Accanto a queste limitate forme di protesta c’erano le grandi manifestazioni contro la guerra nel Vietnam a cui partecipavano compatti comunisti, socialisti, e tutta la sinistra parlamentare e extraparlamentare. Avevamo formato, all’epoca, un bel gruppo extraparlamentare con i marxisti, e si lavorava insieme quando gli obiettivi erano comuni. Questa forma di collaborazione trasversale era d’esempio, ed era nata proprio a Reggio. Per questo non possiamo affermare che tutti i reggini siano stati uguali nei confronti dell’anarchismo: c’è stata e continua ad esserci una grande minoranza che la pensa in modo diverso, e che, se si identifica negli obiettivi degli anarchici, partecipa attivamente.

La donna

Il nostro pensiero era evoluto rispetto a quello di altri, perché non guardavamo né alla carriera, né alla galera, non avevamo prezzo. Sentivamo che la nostra società sarebbe stata giusta, e ci battevamo con forza per realizzarla. Si era giovani, poco meno che ventenni, ma già guardavamo alla donna con rispetto, considerandola un essere umano con qualità, diritti e doveri, identici a quelli dell’uomo. Oggi sembra banale, ma all’epoca era una posizione importante, controcorrente. Per questo molti si avvicinavano ad ascoltarci, perché per la cultura dominante di quel periodo le cose erano esattamente al contrario. E allora noi, spiegando e lottando, raccoglievamo consensi e simpatie tra la gente. Sentiamo di avere vinto questa battaglia, che le nostre parole sono stante ben spese, perché se oggi in Italia abbiamo una legge che difende la parità dei sessi è anche grazie alle proteste degli anarchici che ne parlavano già nel ‘67, nel ‘68, nel ‘69. Tra curiosità e desiderio, dunque, avevamo occasione di incontrare molte persone e molti abbracciavano totalmente la nostra causa. Tra cui donne, appunto: c’erano molte simpatizzanti dell’anarchismo. Quando sono sorti i Collettivi operai-studenti siamo riusciti a dialogare meglio con le famiglie. Il Collettivo era un’idea liberale, chiunque poteva farne parte, chiunque poteva esprimere un pensiero, senza mai essere assalito o “mangiato vivo”. Il massimo del dissenso, nel confronto, poteva essere “guarda che non è così secondo noi”. Uno dei principi fondamentali dell’anarchismo – lo ripeto – è il rispetto dell’individualità, e ognuno deve arrivare, secondo le sue possibilità e secondo il suo tempo, a quella che noi chiamiamo “l’evoluzione del pensiero”.

Medicina autogestita e scuola

A Campo Calabro abbiamo avuto esperienze di “medicina autogestita”, grazie all’aiuto e alla disponibilità di due medici, di cui uno ancora esercita a Reggio. Stampavamo un giornale, nel periodo dell’istituzione del Collettivo operai-studenti, che era la continuazione dei fatti di Reggio; e, quando sono riuscito a raccogliere un po’ di soldi, ho organizzato persino dei corsi musicali. Poi qualcuno mi fece notare di avere più diritto di me a quell’edificio che ci ospitava, ed io me ne andai e aprii poco lontano una scuola in cui si insegnavano pittura, scultura, musica. Tutti i ragazzi mi seguirono. Naturalmente nessun insegnante veniva retribuito, chi accettava di aiutarci lo faceva perché si sentiva affine alla causa e alla gente, fra questi vorrei ricordare Carmelo Tenio, uno scultore di Reggio Calabria. Abbiamo allestito anche un corso di ceramica e, a riguardo, vi racconterò un aneddoto: un bel giorno arrivai a scuola e trovai tutta la creta spalmata sui muri. I ragazzi stavano lì in attesa di un rimprovero. Cosa fare? Mi passò per la mente, in quell’attimo, quanto mi aveva raccontato il figlio di una mia compagna, che studiava con i suoi quattro fratelli in una scuola inglese. Avevano rotto un vetro, e quando arrivò l’insegnante, anziché punirli, prese una pietra e ne ruppe uno anche lui: così si fa, disse, lasciando i ragazzi sbalorditi. E quell’uomo, senza alcun rimprovero, diede loro una grande lezione di vita. Io allora feci lo stesso, dissi agli studenti “lo vedete quell’angolo? Così si fa a imbrattare i muri” e lanciai la creta. Poi insieme ripulimmo tutto.

Il rapporto con il clero

Eravamo anticlericali, che è un altro punto importante dell’anarchismo, ma dimostrare al popolo che tutto l’impianto religioso è da sempre una forma di potere per governarlo non è semplice. Oggi la chiesa cattolica ha affermato di non voler “investire” in Europa perché il laicismo è più forte; e si è spostata in Cina, in Africa, in America. Anche noi abbiamo contribuito a questo risultato, anticipando a Reggio e in tutta la Calabria, quelli che poi si sono rivelati dei percorsi europei. La Chiesa mi è stata ostile, ma io ho sempre saputo difendermi, con tanti modi e forme. A Campo, col parroco di adesso, siamo addirittura buoni amici, perché entrambi abbiamo grande rispetto del pensiero e dell’individualità. Il clero degli anni Sessanta, al contrario, era eccessivamente duro con l’anarchismo; altro periodo storico! Pensate che a Campo, per la medicina autogestita avevamo come sede la sala del prete. Successe una guerra, gli animi si divisero, era una piccola rivoluzione all’interno della chiesa stessa. Come ci eravamo riusciti? Senza mai accennare all’anarchismo, bensì praticandolo.

Le battaglie di oggi

Il movimento, dopo la scomparsa dei cinque compagni della Baracca, si è bloccato per qualche tempo. Poi, con un manifesto che abbiamo intitolato “La rivolta degli sciacalli” (io non me lo ritrovo ma lo troverete di certo in polizia), stampato alcuni mesi dopo la loro scomparsa, si è in qualche modo riacceso. Seguono delle pagine di storia che non si possono ancora narrare, perché molta gente vive, lavora, e ciò potrebbe riversarle addosso delle ostilità. Ma ognuno di noi ha partecipato con modi e forme diverse fino ad arrivare ad una ripresa delle attività. Ad esempio il compagno Pino Vermiglio, con la collaborazione di tanti, ha aperto una biblioteca qui a Campo. Questa biblioteca, oltre alla sua funzione, è anche un punto di riferimento per qualsiasi movimento o comitato. Abbiamo appoggiato molte iniziative: battendoci per risolvere dal problema più lieve (la spazzatura), a quello più grande (il grave inquinamento che avrebbe portato la persistenza a Campo Calabro di un impianto di bitume). Quindi gli anarchici “lavorano”, come sempre, accanto alla gente, e già il fatto che io lasci le sedie qui, in questa piazza, e che chiunque possa utilizzarle anche quando il mio locale è chiuso è una forma di anarchismo.

La democrazia diretta

Gli anarchici non votano per principio, ma questo non significa restare totalmente distanti dalle questioni politiche. La mia opinione, anche se molti non sono d’accordo, è che partecipare, in qualche circostanza, è un nostro dovere. Ci sono elementi di democrazia diretta per cui l’anarchia si deve battere. L’obiettivo va raggiunto in qualche modo. Quarant’anni fa mi dicevo: annulliamo questo, annulliamo quest’altro, ma cosa facciamo? Oggi, con la mia nuova maturità, con l’evoluzione che ha bisogno di tempo e di cultura, sono riuscito a darmi una risposta: esistono forme di organizzazione che si potrebbero applicare. Per esempio si potrebbe sostituire il consiglio comunale con l’assemblea pubblica, oppure apportare qualche modifica al consiglio stesso, trasferendolo in piazza, aperto al pubblico, lasciando la possibilità ai cittadini di intervenire, di fare proposte, di elencare i problemi, di arrivare con gli amministratori a delle soluzioni condivise. Oggi nei comuni c’è una gestione di potere e basta, la gente che vive il paese non ha nessuna voce in capitolo. Guarda questi alberi come sono abbandonati, guarda questa piazza. Un popolo civile dovrebbe avere questo? Certo che no, perché uomini e alberi vanno rispettati. Ci insegnano a “piantare” e poi vai in una piazza e trovi solo cacca di uccelli, di migliaia e migliaia di uccelli. Se gli alberi fossero curati, potati, si potrebbe convivere con loro, e con gli uccelli. Poi arriva un amministratore e propone: affumichiamoli. E questa sarebbe la soluzione? E lui l’amministratore che mi dovrebbe rappresentare? Quello stipendiato?

Il processo evolutivo

Per la mia idea, rifarei ogni cosa. E certo avrei voluto fare di più negli anni, perché il fatto di non essermi mai tirato indietro non è sufficiente. Il mio sogno è di avere una radio, per entrare in tutte la case, stare con la gente. Il concetto dell’anarchia è molto difficile proprio perché diverso da quello che si vive. Come può, allora, un anarchico spiegare ad un ragazzo che non conosce la sua dottrina come intendere il potere? È necessario, per farlo, partire dalle piccole realtà locali, ed arrivare a organizzare in modo anarchico tutto il pianeta terra. Prima parlavo di un processo evolutivo, ma per aiutare le persone a comprendere, a crescere, è fondamentale contare su una macchina già in movimento, con cui trasmettere queste forme e modi di vivere diversi dal noto. A Reggio, ad esempio, l’evoluzione non è attiva, non ci sono le condizioni per una crescita comune, tutto è negativo e le minoranze non hanno grande capacità di comunicazione (se ci fosse una radio l’avrebbero). Devono esserci gli strumenti per riuscire a comunicare, o il processo, già lento di suo, si blocca o non parte. Per esempio in una famiglia agiata il figlio non deve necessariamente essere brillante per acquisire, nella società, un ruolo importante. Perché in una famiglia agiata esiste una serie di elementi che educa, fin da bambino, quel ragazzo a ragionare ad un certo livello. E il figlio del povero? Un ragazzo povero emerge solo se particolarmente dotato, con questo sistema, e affrontando gravi difficoltà. Se in questa piazza, infatti, posizioniamo solo un biliardino o delle carte per giocare, i ragazzi oltre il biliardino e le carte non andranno, il loro processo di evoluzione resterà fermo a quegli unici elementi. Se invece mettiamo degli scacchi, o altre cose che stimolino la mente, i ragazzi cominceranno a intendere le cose in altro modo.

Un anarchico al potere?

Gli anarchici non hanno nessun interesse ad andare al potere, perché se ci andassero, molto probabilmente, farebbero anche peggio degli altri. Non è l’uomo, è il potere che divora, per questo esso va diluito, diffuso. I governi non dovrebbero esistere, piuttosto servirebbe avere un’organizzazione in cui nessuno ha il potere di comandare ma tutti assieme gestire. Ecco che dal comitato di frazione si arriverebbe al comune, dal comune alla provincia, dalla provincia al meridione, dal meridione all’Italia. Alla fine è il pensiero di tutte queste entità che deve prevalere. Potrebbe sembrare un concetto utopistico, ma diverse esperienze storiche ci insegnano che ci si può arrivare.Considerate che è molto facile comunicare col popolo, quando si centralizzano gli obiettivi sociali.

Il reato d’opinione: articolo 290

Oggi siamo decisamente più liberi di mezzo secolo fa, per esempio parlare di sessualità ai ragazzi è una cosa normale. E la libertà di pensare ancora esiste, non sono riusciti a distruggerla pur avendoci provato. Io sono andato in galera sette volte per aver “infranto” l’articolo 290, due per piacere mio e cinque per piacere della storia. Oggi si può parlare in tante forme e modi, anche se devi stare sempre in guardia o ti fregano, mentre prima si andava in galera per reati d’opinione. In una pizzeria a Roma un ragazzo scrisse su un tovagliolo qualche considerazione riguardo la storia di Calabresi, e poi lo lasciò lì abbandonato. Per questo finì in galera. E in questo tipo di società coercitiva e autoritaria, che controlla tutto, quasi stalinista, per una cosa del genere sei fregato, ti cadono addosso una serie di restrizioni. Io, che non ho mai desiderato “fare concorsi”, mi sono potuto permetter il lusso di vivere da anarchico.

Discarica di Casignana. I lupi, i porci, "le iene"

I lupi

Come lupi, sui fianchi in pendio della montagna, camminavamo a passo svelto, giocando d’equilibrio. E stringevamo le braccia al busto, dinnanzi ai rovi, per attraversali di petto, come prue nell’acqua.

Terra, aria, odori misti di erbe e animali, e alberi e grandi pietre in ogni dove a fare, di piccoli angoli, esclusivi paradisi. Tenevamo gli occhi bassi, in queste veloci traversate da un punto all’altro, perché si acuissero l’olfatto e l’udito, convinti che la montagna prima ancora che guardata vada sentita, proprio come la sentono i lupi…

Fango che puzza di feci, e un silenzio colpevole in questa valle che accompagna il Rambotta fino al mare. Resto stupita a guardare, a tentare di convincermi che quella montagna difronte a me sia realmente fatta di scarti di ogni genere, putrefatti e compressi a vomitare umori dentro una vasca che cederà alla prossima pioggia.

La terra, quella dentro cui infilavo le mani a cercare il battito cardiaco dell’Aspromonte, ora non posso toccare, tanto è intrisa di veleni d’ogni sorta. Ed è erba questa, e questo è un albero, ma senza frutti e senza profumi che non siano compromessi dallo stesso veleno. Mentre una vacca, lassù, sulla cima del monte di scarti, pascola e sembra quasi non accorgersi di nulla. Bestie penso, siamo tutti bestie.

Siamo porci, lupi, iene.

Le iene

Si muovono con passo felpato, le iene. Scavando per giorni nell’ammasso decomposto di rifiuti. Dall’alba fino alla notte. Troppe cose non tornano, in questa faccenda che sembra uno show ma in realtà è un muro di calcestruzzo e acciaio. Se ne accorgono che già sono in ballo, quando ogni tesi, fondata che sia, si infrange senza pietà in risposte blindate. E nei silenzi compiacenti di coloro che, in un modo o nell’altro, si ritengono, se non colpevoli, complici dello scempio. Ma ogni muro ha una faglia, a guardarci bene, soprattutto se costruito senza regole d’ingegneria ma a gusto umano.

La faglia, con poche ore per rintracciare una verità affidabile, seppur sommaria, è un’intuizione, una prova già esistente ma mai verificata. Sta lì la prova, in quelle analisi che il Comitato No discarica produsse nel 2011 estraendo dei campioni di terreno lungo la valle del torrente Rambotta, accantonata tra foto, ordinanze del Tar, sentenze, dichiarazioni, delibere.

Se ne accorgono, la verificano, «Professore Laghi – chiedono leIene al primario dell’ospedale di Castrovillari e vicepresidente nazionale Medici per l’ambiente – cosa significano questi valori di nichel, cadmio, piombo?» «Sono pazzeschi, altissimi, segnalano che il percolato è fuoriuscito infettando i terreni, e che lo stesso non può essere prodotto esclusivamente da rifiuti solidi urbani».

Una corsa contro i tempi dettati dallo show per rispondere almeno a qualche domanda delle mille che ne sorgono ora. Perché l’allora amministrazione comunale non tenne conto delle analisi commissionate all’Unime e finanziate dal Comitato No discarica?

Perché l’Arpacal, sempre con l’università di Messina, produsse esami che portano la stessa data, la stessa zona, ma valori completamenti diversi, persino rassicuranti?

Perché non furono effettuati per tempo, pur essendo state segnalate le pecche della struttura, i lavori di messa in sicurezza delle due vasche di raccolta?

Dove sono finiti i soldi per gestire la discarica post mortem, cioè per trent’anni dopo la sua saturazione?

Ognuno ha avuto modo di spiegare le sue ragioni: dagli ex amministratori, al sindaco attuale di Casignana, all’Arpacal di Catanzaro, al Comitato No discarica; e poi ancora la procura di Reggio e quella di Locri, il Noe dei carabinieri, gli esperti e i tecnici. Nulla è lasciato al caso, nulla al giudizio o al gusto del soggetto, i dati vengono meticolosamente incrociati e verificati. Un lavoro che somiglia più all’inchiesta che allo show, e che come inchiesta, e non come show, ci auguriamo faccia chiarezza.

I porci

Nel frattempo al Consiglio regionale della Calabria, il 17 dicembre scorso, si è riunita per la terza volta (in meno di un mese) la Quarta commissione ambiente, e le famose Linee guida per la rimodulazione del Piano regionale di gestione dei rifiuti della Regione Calabria, sfornate dalla Giunta regionale con delibera numero 407 il 22 ottobre 2015, continuano a passare indisturbate con parere favorevole.

E con queste, i famosi 200mila metri cubi di rifiuti continuano ad essere designati come capacità residuale della discarica di Casignana; perché né la Giunta, né la Quarta commissione hanno provveduto a cancellarle.

Non è un atto di sfiducia verso il governatore Oliverio non farsi bastare l’ormai nota dichiarazione rilasciata in conferenza stampa a Locri il 16 novembre scorso: «A Casignana non arriverà più neanche un chilo di immondizia», considerato che i lavori di messa in sicurezza portano il nome “Ampliamento della discarica pubblica per rifiuti non pericolosi in località Petrosi del comune di Casignana”. Le carte, caro governatore, effettivamente ci terrorizzano.

Nel frattempo, la vecchia Arpacal continua a far parlare di sé. Stavolta è il Tar a richiamare l’organismo preposto, grazie alle istanze presentate dall’avvocato del comune di Bianco, Ferdinando Parisi, in un’ordinanza che porta la data del 3 dicembre 2015: “L’Arpacal a fronte dell’ordinanza cautelare n. 266/2015 con cui veniva nominato commissario ad acta un proprio funzionario, ne dichiarava l’incompatibilità rispetto il predetto incarico; a fronte del decreto cautelare n. 292/2015 con cui veniva alla stessa ordinata la messa in sicurezza del sito, rimaneva sostanzialmente inadempiente”; così “ravvisata la perdurante necessità di mettere in sicurezza il sito di cui in causa, divenuta ancor più impellente in conseguenza agli eventi alluvionali del mese scorso” il Tar nomina commissario ad acta della discarica il Prefetto di Reggio Calabria.

E gli atti del processo vengono impacchettati e spediti alla procura di Locri al fine di valutare la sussistenza di eventuali reati dell’Arpacal che rischia la condanna per omessa bonifica. Dopo anni di lotta, dunque, si inziano a districare i primi nodi, mentre il presidente del Comitato No discarica Antonio Pratticò raccoglie i frutti della sua perseveranza. Lui che venne a lungo screditato nonostante quelle analisi, costate più di mille euro, effettuate da un professore universitario di Messina, che fu accompagnato sui posti dai carabinieri di Caraffa del Bianco, affinchè la corretta procedura di estrazione dei campioni fosse testimoniata dalle forze dell’ordine.

No! Non da solo. Ma con accanto la famiglia più volte ferita dagli eventi, gli amici che in lui hanno creduto, gli angeli che lo guardano orgogliosi dal cielo, vincerà Pratticò. Una guerra che appartiene ad ognuno di noi, perché è di diritto alla vita che stiamo parlando, ma di cui Totò è bandiera indiscussa.

I lupi

«Non toccare niente, qua è tutto infetto». Non tocco nulla, penso, mentre cerco di indovinare la forma della costa allo sfocio del Rambotta. Riesco a seguire, da questa postazione, la linea del torrente per tutto il percorso, ma, proprio alla sfocio, una collina mi ostacola la vista, anche se dietro di essa, poi, il mare si apre azzurro e corre libero fino all’orizzonte. Un orizzonte antico, come antico è questo angolo di Calabria, oltraggiato, ripudiato, avvelenato dai suoi figli.

Non ebbe mai le bellezze dell’Aspromonte, questa valle al confine tra Bianco e Casignana, neanche prima di ricevere l’incresciosa ferita, ma ha sempre avuto una storia che senza uguali e il suo cuore è in quella statio a pochi chilometri dal Rambotta, e il suo sangue nei vigneti caratteristici, dolci come miele, che vegetano a valle. Secoli e secoli di storia, di cultura, di saggezza.

Cultura. Ecco cosa ci abbiamo costruito accanto alla villa che fu dei Romani, un immondezzaio alto decine di metri, terrazzato come fosse una montagna, mal coperto dalle geomembrane.

Saggezza. Un operaio, dall’alto del suo escavatore, prende il telefono e avverte i carabinieri della nostra presenza. Abbiamo troppo scritto, troppo fotografato, troppo parlato. Chiariamo ogni cosa alle forze dell’ordine, e ci lasciano andare.

Come lupi camminiamo a passo svelto, silenziosi, tenendo gli occhi bassi a contando i metri che ci porteranno lontani dallo schifo, su strade sempre meno fangose e sempre più profumate di erbe e di animali.

Passiamo attraverso i rovi stringendo le braccia al corpo, per sentirci come navi ondeggianti sul mare. E poi le apriamo come a prendere il volo, sui fianchi ripidi o sui precipizi, sfidando senza esitare questa forza di gravità che vorrebbe fermare la nostra corsa. Che vorrebbe fermare la nostra corsa!

Quando Bovalino perse il suo “Cinema Paradiso”

Bovalino, 8 febbraio 2006. Continuano i lavori di demolizione del vecchio cinema Ariston. I bovalinesi, di tanto in tanto, si fermano ad osservare. Dagli squarci, la luce si infiltra insidiosa riscoprendo le vecchie tribune impolverate, dai muri cadenti si intravede il palco, la cabina in mattoni, nella parte alta, ancora resiste. «Sono solo fantasmi del passato» dicono i giovani, mentre i più anziani tornano ragazzini.

Bovalino, 10 agosto 1944, sul suo nuovo quaderno Giovanni Ruffo annota: «Oggi ricorre l’anniversario della firma dell’armistizio con gli Alleati. Nel pomeriggio, con il biroccio, siamo andati al Bosco dal mio compare Barreca. Abbiamo mangiato formaggio, pane, uva, fichi d’india; abbiamo bevuto vino buonissimo. Al ritorno sono andato al cinema, dove hanno proiettato “L’assassinio del corriere di Lione”. Gli Alleati si trovano a pochi chilometri da Bruxelles (…) la famosa linea difensiva tedesca a nord di Firenze è stata sfondata».

Vincenzo Michelizzi era troppo piccolo per scrivere, lui il cinema lo visse in maniera diversa. Correva tutto il giorno tra la stazione e la sala di proiezione per portare le pizze all’operatore. «Consegnato l’ultimo film, invece di andar via – ci spiega Michelizzi – mi nascondevo per osservarlo mentre incollava la pellicola con l’acetone. Aspettavo che finisse la proiezione, poi, quando andava via, entravo nella cabina e provavo anch’io. Giocavo con i pezzi di pellicola fino a tarda sera».

Ricordi che le ruspe riportano in vita, storie che si intrecciano e si completano. Piccoli pezzi di mosaico raccolti per strada.

Bovalino, 24 settembre 1944, Ruffo scrive: «Stamattina sono andato a Messa. Abbiamo mangiato pasta e fagioli. Stasera hanno proiettato “Maddalena zero in condotta” con Carla Del Poggio, Roberto Villa e Vittorio De Sica. È la quarta volta che vedo questa pellicola». Michelizzi, frattanto, continua a fare prove, presto sarà un operatore cinematografico perfetto: «Quando diventai titolare al cinema Ariston avevo ventidue anni, – ricorda Vincenzo insieme a noi – quella sera proiettai “Tormento ed estasi” e “Tutti insieme appassionatamente”. Formai, con altri ragazzi, un’ottima squadra. C’era chi metteva i manifesti per tutto il paese per comunicare alla gente la proiezione del giorno, chi passava dal bar a far propaganda perché sapeva che gli “irriducibili” lo avrebbero seguito, ed io controllavo le “pizze”».

Le ruspe, addette ai lavori di demolizione, si sono appena fermate così, quando Michelizzi addita qualcosa dentro al cinema, possiamo avvicinarci alle transenne: «Il direttore D’Agostino non mancava mai allo spettacolo delle 21.00. Vedeva i film più volte e quello era il suo posto fisso. I bovalinesi non lo occupavano per questo. Don Carlo Romeo, invece, si sedeva dall’altra parte. Per la sala correvano i bambini che le mamme mi affidavano nel primo pomeriggio. I fratelli Cataldo, figli del panettiere, venivano a trovarmi spesso con i panini caldi. U frittularu era uno dei personaggi più strani. Faceva il reduce pluridecorato della guerra. Poi c’era un certo Morisciano che entrava alle 14.30 e vedeva tutti i film fino alle 20.00. Una sera non si accorse che la porta era chiusa e sia lui che il vetro fecero una brutta fine». Anche Ruffo ricorda questi tempi: «Era il miglior cinema della zona. Facevo il critico cinematografico per l’Unità e annotavo sui miei quaderni tutte le proiezioni. Era una struttura magnifica, sempre piena di gente. Ricordo i fans di Roberto Villa, gli appassionati di “Sangue e Arena”, gli instancabili dei Western. Un vero salotto cittadino. Il palco era riservato ai benestanti e alle scene coi baci tutti bisbigliavano scandalizzati». E qualcuno s’innamorava: «Vidi mia moglie per la prima volta al cinema – racconta per concludere Michelizzi – avevo appena fatto partire la proiezione di “Lassù qualcuno mi ama” ed ero sceso in sala. I nostri sguardi si incrociarono per caso. Lei era poco più che dodicenne».

Gli ultimi pezzi che i bovalinesi ci regalano, poi vanno via, forse un po’ malinconici ma… senza mai voltarsi indietro!

L’editoriale. Per padre ho un Cristo Redentore

«Vuoi vedere Campusa?» «No, non mi interessa». Così, delusa, camminai avanti, per farle strada tra la polvere e le erbacce. Terra e rovi hanno un sapore amaro, a venirci in compagnia, perché essi ti attendono, ti sfiorano, ti riconoscono, e accendere i riflettori ti dà sempre la sensazione di aver sbagliato, di averne violato il silenzio. Di essersi interposti tra equilibri che hanno il loro ritmo e la loro dignità. Fui presa da malinconia.

«Vedi il genio civile? Il municipio? L’asilo? La caserma? Quelle sono le scuole intitolate a Zanotti Bianco» le mie mani si agitavano e andavano a vuoto, mentre genio civile, municipio, caserma, asilo, scuole, Zanotti Bianco, erano parole che mi rimbombavano nella testa. Mi accecavano di rabbia. Fermati! Fermati e ascolta i suoni delle zampogna e le serenate di cui è intrisa l’aria. In questi vicoli si nasconde ancora l’ansia dei tradimenti, lo stupore improvviso dei morti. C’è puzza di povertà e di capre. La senti?

Ascolta, sono passi sulle mulattiere, chi arriva? I mastri o u signurino? Ma erano due mondi, i nostri, profondamente distanti. E nessuna domanda, fece, a cui valesse la pena rispondere. Nessuna che non ledesse l’oblio, a cui tutti hanno diritto; un popolo, così come un individuo. Perché esso è un manto pietoso sul passato e, proprio per questo, esso è un punto di partenza.

Il diritto all’oblio è il diritto che fatti, o stili di vita, che non corrispondono più all’immagine attuale dell’individuo, vengano dimenticati. Un riconoscimento, a cui fa cenno la Costituzione, per fermare le strumentalizzazioni che il mezzo d’informazione concede ai giornalisti. Troppo facile, per loro, sostituirsi a Dio. Non più il Cristo di Montalto, per gli aspromontani, ma un Dio con telecamera e microfono. Poco tempo. Ancor meno pazienza. E un malloppo di ordinanze (ordinanze, non sentenze) nascoste in valige da hotel cinque stelle. E così bardato, il Dio della comunicazione decide, a seconda delle esigenze di redazione, chi vive e chi muore.

Il diritto all’oblio è il diritto di ricominciare, anche se si ha sbagliato. Duro da spiegare a chi, per far reggere lo scoop, trova più comodo cambiare gli ausiliari, e passare dall’avere all’essere con un colpo di gomma. Ma “essere sbagliato” è una condanna che pesa più degli anni di carcere, quando suona da un giornale o da un programma a tiratura nazionale. Palcoscenici da cui non si giudica l’uomo (che già sarebbe grave) lo si pregiudica (che è peggio).

Il diritto all’oblio è il diritto a costruirsi una famiglia, a inventarsi un lavoro, a farsi prete o astronauta. Il diritto a pentirsi, a redimersi, a ricevere un atto di pietà, a fuggire. Ma soprattutto a non darne conto, a non doverlo spiegare. A non doverlo più spiegare. Dio l’ha insegnato.

Il popolo aspromontano è un mondo pieno di colori e di sfumature che cerca, disperatamente, di allontanare lo stereotipo che lo vuole per forza o ‘ndranghetista o pentito. O buono o cattivo. O di Bagaladi, Delianuova, Santa Cristina o di Oppido, Polsi, Africo, Platì. Ma tutte queste realtà sono piene di sfumature, hanno lati positivi e lati negativi. Hanno ombre e luci. «Io non so cosa devi raccontare nel tuo servizio, ma tieni presente che ogni cosa ha ombre e luci. Noi, ad esempio, col giornale raccontiamo le ombre, certo, ma evidenziamo le luci» «Si, è giusto. lo capisco». Ma non c’era calore, non c’era curiosità o passione in quella risposta. Un modo approssimativo, piuttosto, di rapportarsi alle cose, domande che tendevano a creare un alter ego “buono” degli aspromontani, su fatti cattivi. A farne una sorta di “ragazzi di Locri” della montagna. «Sono osservazioni sbagliate. Piene di pregiudizio le tue» «E se io volessi parlare in modo negativo della vostra realtà per poi affermare l’esatto contrario?» «Sarebbe un errore gravissimo. Noi non siamo “il contrario” della ‘ndrangheta, noi siamo la risposta all’assenza di infrastrutture, di lavoro. Siamo associazioni di volontari che ripuliscono i borghi e le strade dell’Aspromonte, siamo accademie e università che raccolgono fondi per interventi strutturali, siamo un giornale che recupera cultura e memoria, siamo libri e scrittori. La ‘ndrangheta è altra cosa. Non è il nostro contrario. Non abbiamo bisogno di essa per darci un senso».

Il diritto all’oblio è un Cristo, lassù, a quasi duemila metri, con il volto sereno e i lineamenti perfetti. La sua voce rimbomba tra i due mari, sostenuta dal vento. Il suo sguardo è severo su Reggio, patria di potere e podestà. Ed è un Cristo Redentore. Perché il diritto all’oblio è diritto alla redenzione, innanzitutto.

Del singolo uomo, come del popolo.

Di una terra. Della sua cultura.

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