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Antonella Italiano

Antonella Italiano

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In ricordo di Gianmario Lucini

Te ne sei andato così nel silenzio, senza darmi il tempo di ringraziarti dell’ultimo tuo dono, “Keffyeh- Intelligenze per la pace” (a cura anche di Mario Rigi), quella pace che spesso abbiamo urlato attraverso i nostri scritti, quella pace che speravamo di avere in questo mondo.

Giamario Lucini era un uomo semplice. Definito il poeta dell’antimafia, il poeta civile, era critico letterario anche ed editore. Riusciva sempre a sorprenderci con le sue iniziative, i suoi concorsi dedicati al Don Lorenzo Milani, Davide Maria Turoldo, Franco Fortini, tanto per citarne alcuni.

E le tante opere antologiche testimoniamo i frutti raccolti, noi anime sempre più desiderose di lasciare attraverso la scrittura un pensiero rivolto sempre all’ascolto tanto da premurarsi di fare più presentazioni nel profondo sud, la nostra Calabria e non a caso scrivo nostra, la amavi come se fosse la tua.

La mafia scrivevi è un problema di cultura. L’Italia perde un pezzo di cultura, un pezzo di quella volontà che in maniera determinata cercava di portare cambiamenti, uomo rivoluzionario e critico. Molte le antologie di cui mi onoro di far parte e di averne curato anche le copertine di due, alcune pubblicate anche con Libera, l’associazione contro le mafie, una intitolata “Non si cuntanu i ciri ntà l’artari”, da una poesia del poeta Calabrese Bruno Salvatore Lucisano, poesia premiata al premio mondiale Nosside e che vede l’intestazione di questo libro, lo sottolineo per capire come Giamario Luicini era molto attento a questo territorio a questa nostra amata terra.

Nei suoi Scritti sull’Aspromonte cita i nostri morti, Lollò Cartisano, Vincenzo Grasso, i cimiteri delle Serre. Molte le presentazioni nelle scuole e le piccole testimonianze, riportano note di coraggio, non abituarsi alla violenza, scriveva, perché l’abitudine è peggio della violenza stessa.

Ciao Gianmario, voglio pensarti su quelle cime elevate che hai più volte fotografato, guardaci da lassù e sorridici ancora, grazie per quello che ci hai lasciato, dalla Calabria il nostro umile abbraccio.

Da Maria Eleonora, dalla “poetessa dall’impeto e fiamma, da quell’irrequietezza di sentimento, di slanci, di pensieri” come tu mi hai definito. Ovunque tu sei e vada GRAZIE.

Maria Eleonora Zangara

IL BOSCO

Riposa in pace Vincenzo Grasso

nel camposanto di Locri,

a Bovalino Lollò Cartisano

e in mille e mille cimiteri riposano

in pace gli ammazzati e nelle Serre,

sull’Aspromonte, nella Piana dormono

i morti che non hanno sepoltura.

Io so che dai tumuli a volte

i morti chiamano

nelle sere d’inverno quando falcia il maestrale

e chiedono conto ai loro assassini

di tanta ferocia. Li senti parlare

carnefici e vittime senza rancore

ora che è passato il dolore

li senti perdonare e chiedere perdono,

li senti piangere come bambini

angosciati dal non poter disfare

il male compiuto i morti assassini

e sull’Aspromonte dai dirupi rispondono

i morti senza lapidi e senza ricordo

li senti consolare con quella nota

che solo i giusti possono cantare.

Il vento di maestrale

porta queste voci da ogni sepoltura

ed è un coro sapienziale

che solo i vivi possono ascoltare.

Gianmario Lucini

La riflessione. L'infinita nostalgia del Natale

Mio fratello aspettava con ansia che si facesse sera, quando Alfonsino con il suo gruppo di musicanti passava dalle case a cantare la novena. Correva alla porta e restava a guardarli: erano alti, tutti coperti, con tanti strumenti e tante canzoni.

Erano bravissimi. Ma quando poi si allontanavano, mio fratello restava in silenzio, dietro la finestra, aspettando con le orecchie tese che la musica finisse. E si faceva triste.

Per questo, mio padre, il giorno dopo, invitò Alfonsino ad entrare, e tirò fuori un registratore e una cassetta, e la mia cucina diventò una vera sala d’incisione. «Dai cantami quella in dialetto» «E ora cantami quella del Bambinello».

Mio fratello non era mai stato così felice, e forse anche Alfonsino lo era. Io, invece, non ero nemmeno nata. Perché la vita scorre su un filo d’oro. Tina ci aspettava impaziente, quella sera pioveva. Aveva un caminetto sempre acceso e tanti amici a farle compagnia. Come si sentiva lì con lei il Natale, e con i miei cugini, che correvano per il corridoio insultandosi. E mio zio, anziano e smemorato, ogni volta che mi vedeva in quella casa mi apostrofava severo «Tu cu si?» ed io neanche rispondevo, ché senza accorgersene dopo qualche minuto mi chiamava per nome. E Tina, inguaribile sognatrice, ci insegnava le strofe della novena, decideva chi e quali strumenti, e seguiva con attenzione le nostre prove.

Fu allora che gli odori, i suoni e il freddo di dicembre mi entrarono nel cuore e nelle ossa. Mio fratello, invece, non l’aspettava più la novena. Lui era già grande. Perché la vita è un volo. «Scusa potrei parlare con te?» Alfonsino mi aprì la porta sbalordito. «Vedi questa cassetta? La conservava mio padre, ci sono delle novene che tu cantavi vent’anni fa. Sono strofe bellissime. Te ne ricordi qualcun’altra? Ci piacerebbe recuperare questi testi antichi». Alfonsino sorrise, e mi promise che avrebbe provato a ricordarli, e con destrezza si liberò di me.

Lui non era un gran parlatore, un tipo solitario piuttosto, ma il foglio, se pur incompleto, me lo mandò sul serio e fu mio zio Totò a riscrivere, per quelle meraviglie del passato, gli arrangiamenti musicali. A modo suo naturalmente. E con la chitarra puntualmente scordata. Ma aveva sempre voglia di cantare, e a furia di novene, muttetti e serenate faceva festa tutti i mesi. Compreso dicembre.

Oggi l’allegria di mio zio, la voce di Afonsino, i sogni Tina, tornano come ogni anno a tenermi compagnia. Anni, anni e anni che sembrano legati da un filo d’oro. Il pomeriggio è appena iniziato, ma è già buio il cielo. E l’aria è gelida, di un freddo che brucia la pelle. E il paese profuma di legna e di camino. E si veste di arance.

Cammino, in queste strade un po’ più vuote, ripensando a noi così piccoli e coraggiosi. Ai tempi in cui tutto era possibile, al calore di un ricordo, che si accende a arde nelle sere d’inverno. Mai inutile. Mai sbiadito. Mai malinconico.

Questo mi resta. E resta un albero, su cui appendo dolci e cioccolatini, affinché anche i più piccoli abbiano, domani, qualcosa di familiare con cui scaldarsi il cuore. Ed esso sarà per loro essenza, storia, tradizione. Sarà un freddo che arriverà alle ossa, l’odore di arance e mandarino, il fuoco e il fumo di un caminetto acceso, e dei canti che sopravviveranno per altri cent’anni.

Sarà un volo che saprà di mistero e di preghiera. Di infinita nostalgia. Di Natale.

Il racconto. Dalla valle, la voce di Caterina

Arrivammo al passo della zita, lungo la strada che da Bova porta ai Campi, e ci fermammo. «Vedi, quella è la valle che inghiottì la povera Caterina. La giovane sposa che preferì morire, piuttosto che sposare un uomo più anziano, scelto dal padre, com’era usanza tra la gente aspromontana»

«Scelto dal padre?»

«L’amore è un lusso troppo grande, quando si combatte ogni giorno con la fame». 

Guardai la stradina su cui, quello strambo corteo nuziale, certo camminava in fila indiana, tanto era stretta e in pendio. Ma in quella natura, calda di sole e vitale, come solo a settembre sa essere, io non ci vidi la morte. Né mi sentii angosciata dal racconto. Leggende, pensai. E andammo avanti.

Campusa, meraviglioso paese che, pur deserto, puzzava di vita, mi chiamava insistente. Misi Maria Vittoria nel sacchetto a tracolla e, approfittando di un momento di distrazione, mi incamminai. Sola non ci potevo andare, ma il cuore mi batteva più forte ad ogni passo e, dagli squarci lasciati apposta dagli alberi, intravedevo l’orizzonte di vette, cielo e, dalla curva, quel rassicurante triangolo di mare. E aria, e spazi aperti, mi chiamavano gioiosi. Ed io non riuscii a fermarmi, andai avanti, avanti, avanti. Fino a Campusa. E lì aspettai il buio, come fosse la nostra coperta. Mia e della bimba. E non vidi pericolo, no. Solo vita.

«Vuoi arrivare davvero fino a là?» «Si, andremo sul pianoro» «A piedi con la neve?». Nessuna risposta, e così partimmo. Ho sempre odiato la neve, e credo che persino la montagna la odi. Non fa vedere nulla, se non sé stessa. Soffoca, gela, distrugge.

Dopo qualche ora di cammino lasciammo lo sterrato, per addentrarci nelle strade che, mi stupisce tuttora, tu seguivi per istinto. Come se fossero le strade principali di una città. «Ma qui non c’era il passo?» «Qui dove? Io vedo solo lo strapiombo» «Ah eccolo, era più su, si era imboscato».

E il passo c’era davvero, dei piccoli sentieri percorsi dalle mucche (credo) dove le piante rappresentavano l’unico appiglio tra noi e il livello del mare.

A pensarci oggi, naturalmente. In quel momento non ci vidi pericolo, neanche il freddo sentii, quando ormai mi si erano inzuppate calze e scarpe. Lontano dalle strade, a diverse ore di cammino da una casa, nel cuore di un bosco così fitto che, se fosse accaduto qualcosa, solo i lupi se ne sarebbero accorti. E con la neve, naturalmente, a tenerci compagnia.

Così, subito dopo l’ultimo angolo, dell’ultimo passo, dell’ultima vetta attraversata, su quel pianoro che tu amavi tanto, la vidi. Come la vedevi tu: uno splendido velo. E la montagna lo portava come Caterina, e appariva più dolce, più pura, come fosse una sposa. «Quello è lo stazzo di un mio parente» «Quelle sono pietre!» «Si, ma sono sistemate in modo concentrico, a disegnare lo stazzo. Ora andiamo lì ad accendere il fuoco».

 

Per vedere lo stazzo ci volle molta fantasia, ma il fuoco era vero, com’era vero che lo accendesti in mezzo alla neve (e allo stazzo), non so con quale arbusto infernale. Restammo così, coi piedi nudi e sospesi, in mezzo ad un curioso cerchio di vecchi massi, immaginando un tetto, ad aspettare che calze e scarpe si asciugassero, e che si riscaldasse il pane.

 

E, al ritorno, pur camminando al buio e pur avendo molta strada da fare, io non vidi il pericolo. Né la morte. Ho amato molto questi posti, con la foga e la rabbia dell’amore reale. Perché ho avuto la fortuna di incontrarti proprio qui, in queste vette che Caterina detestava, perché a lei l’amore fu negato. E la montagna, che tutto aggiusta, se la portò via, per risparmiarle ulteriore dolore.

 

Invece a me disse di cercarti, quando eri lontano, ed io sentii il suo richiamo a chilometri di distanza. E nella notte, sola, su e giù per i tornanti di Pedimpiso, vidi la vita finalmente ricominciare, il dolore finire, e i due cuori che dentro di me faticosamente trascinavo, tornarono a battere vigorosi, un canto in armonia con il canto dell’Aspromonte.

 

Poi un giorno il pianto di Caterina risuonò dalla valle all’improvviso. Un grido che ruppe la magia di una giornata sulla neve «Che c’è Caterina? Che vuoi?».

 

Ghiaccio, la neve divenne ghiaccio sotto le ruote del land rover, un attimo per capirlo, mentre la strada si distorceva e si accorciava all’improvviso. E anche tu divenisti di ghiaccio, come quel lastrone che asfaltava la discesa. Ed io non ebbi fiato per parlare, ché in questi casi neanche si comprende qual è la posta in gioco.

 

Ho sempre odiato la neve, la stessa neve che fu per me complice e compagna, ora si inghiottiva tutto. Perché il dolore è in agguato, e attacca, come le bestie feroci. «Che c’è Caterina? Che vuoi?» ma nessuna risposta arrivò dalla valle, e la montagna bianca, come il velo delle sue tristi spose, quel giorno, mi fece paura.

L'ultimo pastore. Sul Monte Perre con Antonio

Testa dura di una capra! Ad Antonio a volte sembra proprio di impazzire. Alla guida di un gregge allegro e irriverente, lascia la cima del Drago, di buon mattino, per raggiungere la sorgente del Vecchio, giù nella valle. Qualche attimo per recuperare i capi ribelli, poi procede sereno verso il fiume. Nei pressi del puntone Galera, l’insolita comitiva, imbocca un sentiero scavato tra le rocce. Antonio è solo sull’Aspromonte, e a parte l’eco della sua voce e il belare confuso delle bestie, sono solo i ricordi a tenergli compagnia.
Tra le rocce color d’argento e ferro, ci giocava quand’era bambino.
«Ntò» urlava suo padre, temendo che, più disubbidiente delle capre stesse, si facesse male.
«Ntò» ripeteva minaccioso per l’ultima volta, ed un bimbo sudato e raggiante gli correva incontro, agitando un bastone più grande di lui:
«Pà stai tranquillo, da qua le guardo io» e massaru Saverio sorrideva.
Quando il sole si alza dall’est raggiungiamo la cima del Drago. È una bella mattina di settembre e il pensiero di visitare l’Aspromonte ci rende già frizzanti. Dai finestrini del fuoristrada l’aria entra fresca, le case lasciano il posto a boschi di querce e pini, si rincorrono e si fondono tonalità di verde e di marrone e persino l’azzurro del cielo sparisce, divorato da una luce troppo intensa. Ad aspettarci, al rifugio estivo, c’è Antonio, uno degli ultimi pastori, ed una capra impaziente che bolle già nel pentolone. Persino la tavola è pronta per l’antipasto: ottimo vino rosso, formaggio di pecora, zucchine sott’olio tagliate a listelle, pane di casa. Davanti a quel ben di Dio, onestamente, ci arrendiamo, scordando che una parte del nostro gruppo è ancora per strada. Pietro controlla il fuoco, Pasquale offre assaggi di carne tenera già pronta, Antonio si affaccia sulla valle. Ancora è presto per il rientro del gregge; le capre, si sa, godono di un ottimo senso dell’orientamento e, al tramonto, ripercorrono da sole il sentiero che, dalla fonte, le riporta all’ovile. Fu suo padre ad insegnarglielo, quando, ancora studente, Antonio divideva le giornate tra l’impegno della scuola e il gioco del pastore. Poi i giorni divennero mesi, e i mesi anni, e il gioco divenne la vita, e la vita tolse alle cose il gusto della leggerezza. Fu allora che Antonio non volle fare più il pastore. Fu allora che volle andare via, lontano dagli alberi e dagli animali, lontano dai monti e dal paese. Lontano, a sfidare i vent’anni.
Ma, nella nuova città, si accorse che l’aria odorava di nepetella e pino, percepì nei cibi il sapore di ricotta calda e siero, e il frastuono delle auto per strada non riuscì a coprire l’eco delle voci nella valle, che dal cuore gli rimbombavano nelle orecchie. Continuamente. Era un angelo dell’Aspromonte ormai. Quando lo capì, tornò a casa.
Massaru Saverio, felice come pochi, gli insegnò come costruire un rifugio estivo per il bestiame. Padre e figlio scelsero un posto areato e alto, più di 1100 metri, e lo attrezzarono per restarci nei mesi della primavera e dell’autunno. Da aprile ad agosto, così, si dedicarono alla cura delle mucche, che andavano munte ogni giorno per ricavarci ricotta e formaggi, ma senza privare del latte i vitellini. Con la comparsa della prima neve il gregge fu spostato al rifugio invernale, posto a circa 600 metri, proprio sotto il monte Giove, al riparo dalla gelida Tramontana.
Antonio imparò a riconoscere la pista del lupo sulla neve, che spesso si accompagna a quella della vittima di turno, trascinata ancora viva fino al branco. Il pastore non può mancare mai all’appuntamento con il gregge, anche per questo motivo. Il viso del ragazzo è triste ora. Sono tanti i capi uccisi dai lupi. Troppi in rapporto alla fatica e al tempo da dedicare alle mandrie, e alle rinunce che è necessario fare.
Ed ecco gli altri, che ci raggiungono chiassosa e allegra, e prende posto a tavola. Anche la capra prende posto, in ampi contenitori fumanti. condita di olio e cipolla, inebria la vista e il palato. e brindiamo ai nostri benefattori.
«Cos’è? Cos’è?» grida ad un tratto Oliviero.
Più di 700 capi risalgono dal fiume, è il gregge di Antonio che torna per la notte. Al richiamo del pastore cambia rotta, puntando dritto dritto su di noi. Sembra un miracolo quel quadro cangiante, fatto da centinaia di colori. Ed è una musica quella loro conversazione; è la danza dei cani e del bastone. Di chi non ha paura del buio che incombe. Di angeli che la notte dormono… con le stelle.

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